domenica 21 dicembre 2014

Perchè odio il Natale


Io il Natale lo amerei e lo amerei profondamente, non fosse per quel paio di turbamenti che puntualmente mi provoca. Penso, ad esempio, che a Natale sia una profonda ingiustizia quando in una famiglia mancano i nonni. Mi riferisco a certi anziani con il cuore scrupoloso, la capacità di amare la famiglia a prescindere da qualsiasi perchè e la consapevolezza che, giunti all'inverno della vita, si possono cedere le armi e aprire totalmente il cuore ai buoni propositi. Parlo degli anziani che conoscono lo spirito dell'accoglienza e ne fanno una sorta di vocazione, dando ragione all'anagrafe che prescriverebbe, arrivati a certi traguardi della vita, di essere davvero sinceri, se non per natura, quantomeno per il dubbio di essere giudicati e puniti, una volta approdati al porto definitivo. E mi tornano in mente i miei Natali più belli, quando non mi rendevo conto che la vita mi aveva dato tutta la felicità possibile ed ero convinta che avrei potuto avere di più, di più e ancora di più. Avevo già una famiglia granitica alle spalle, con i miei genitori che non hanno mai dato un cenno di cedimento, facendomi sentire sempre dentro una roccaforte: che privilegio! Era il tempo in cui i miei nonni tenevano solida una famiglia monumentale, che per le feste aveva la presunzione di riunirsi occupando ogni ordine di posto, messo a disposizione dalla grande casa all'angolo di via Bonfiglio. Quella casa era l'approdo per tutti noi, come un faro, con quella sua luce perennemente accesa, fossero state pure le quattro del mattino. Eravamo in tanti, con teste, animi e pulsazioni differenti. Ogni tanto si sbeccava il piatto dell'accordo e volava un urlo, un contraccolpo, una discussione. Poi bastava una nota intonata, una sola, e, a modo nostro ridavamo vita a una fragile armonia. Chè è molto più facile sfasciarli i grandi sentimenti, che non costruirli (ah Fossati Fossati!). Durò così per anni, forse per decenni, finchè i nonni Cola e Tatà portarono il bastone dei capi famiglia, dei genitori di una volta, quelli che si sarebbero fatti ghigliottinare pur di non mettere in discussione l'unione con i loro figli. Quelli per cui la famiglia è un bene che va custodito a tutti i costi, ancor prima dell'amor proprio, che senza famiglia anche l'amor proprio diventa un'arida congettura. Erano i Natali rumorosi, che il rumore sa di casa, di vita da vivere, di gente che si muove e laddove c'è movimento c'è amore (ah Dante, Dante). Erano i Natale in cui le tavole restavano imbandite a oltranza, gli odori si mischiavano e nell'aria c'era sentore di mandarino, di vino, di arrosto e di zucchero a velo. Quando per caso, passeggiando per Palermo, magari dentro certi vicoli del Capo, inciampo in un odore simile a quello, mi batte forte il cuore e mi pare che d'un tratto mi si possano materializzare davanti i capelli bainchi di nonna Tatà e il bastone di nonno Cola. Mi stringo nel mio cappotto, mi fermo ed ho la tentazione di bussare alla porta e di intrufolarmi nella vita di quegli sconosciuti. Provo a immaginarli, che se da casa loro fanno uscire odore di famiglia non può che essere bello ritrovarvisi in mezzo. Poi vado avanti e mi accontento di ripararmi dentro un ricordo. Come adesso, che ripenso ai nonni Stella e Raffaele, che sono partiti troppo presto e la qual cosa mi fa arrabbiare ancora. Mi chiedo perchè sia andata così e sospiro  per tutte quelle cose belle che potrebbero ancora darmi. Mi amavano del tutto, con quella capacità rarissima di volere solo il bene della persona amata. E vorrei risentire anche solo la loro voce, che quasi non la ricordo più e la cosa mi addolora. Mi consola una sensazione intima: semmai esista il paradiso io li immagino lì, installati al calduccio, in un posto piccino, in un focolare dell'aldilà, con una macchina da cucire, una chitarra e un cane a tenere loro compagnia. Che il paradiso, se c'è, deve essere questo: un ritaglio di esistenza, il più bello, il più sereno, quello nel quale vorremmo vivere per sempre. Poi ripenso a una giornata come questa, quando la grande festa è vicina. Avrò avuto sì e no una decina d'anni e mia zia Grazia, una sorta di seconda mamma, mi portò a vedere uno spettacolo (un recital, lo chiamava lei) all'oratorio parrocchiale. A un certo punto, qualcuno propose ai bimbi di recitare delle poesie. Io volevo, ma esitavo e la zia mi guardò con fiducia e mi disse: "Vai". E questa cosa,  che è"una cosa come ce ne sono tante", io non l'ho mai dimenticata, la ricordo in ogni sua angolazione. E mi manca, ma di più mi manca mia zia. In queste giornate di festa, mi mancano queste verità, soprattutto quando devo fare avanzare il self control (dote che possiedo solo sul lavoro, ma che mi è carente in tutto il resto) e accomodarmi a certe tavole barocche, dove la prescrizione della perfezione è in cima alla ricetta del medico che sponsorizza le pillole della felicità.E io vorrei essere con le sole persone che amo e con i miei cani, a improvvisare una tavola, magari in riva al mare, ascoltando musica pop, mangiando quello che capita, bevendo vino a volontà e preoccupandoci, per un giorno, di essere solo felici. Che per un giorno il lusso della felicità e quello ancor più elitario della sincerità (per sè e per gli altri) può concederselo chiunque.

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