venerdì 12 dicembre 2014

La cuccìa di nonna Tatà e la casa "fumigante"


Da piccola non festeggiavo mai santa Lucia il tredici dicembre. Chissà per quale strana "alchimia", in famiglia i festeggiamenti si anticipavano di un giorno. Non che non onorassimo la memoria della santa al giusto cadere del calendario. Giammai. Il tredici c'era astinenza rigorosa da tutto ciò che contenesse farina di grano (eccezion fatta per la panatura delle arancine, of course), salvo poi rimpinzarci a volontà di ogni ghiottoneria concessa dall'usanza. La vigilia, però, aveva in sè un sapore singolare. Sarà che il momento prima della festa è ancor più bello della festa in sè, perchè aspetti, perchè congetturi e speri che tutto vada per il verso giusto (cosa che capita assai di rado, quando programmi fin nei minimi dettagli una ricorrenza). Dicevo di quelle vigilie di quando ero bambina. Il dodici dicembre non andavo quasi mai a scuola, avevo sempre una scusa convincente. Una volta mi venne in aiuto anche una mezza "calamità" naturale. Di buon mattino, con mia sorella e con buona parte dell'esercito dei miei cugini, ci ritrovavamo da nonna Tatà. Lì, già dai primi di dicembre, l'aria era fumigante (e non me ne voglia il maestro Garcia Marquez se prendo in prestito un aggettivo da lui coniato e da lui favolosamente usato in molti dei suoi romanzi. Adoro il termine fumigante: mi sa di tepore, di casa in disordine, di miscugli di odori, di arrosto di carne, di salsa di pomodoro e di patate al sugo. E ancora mi sa di famiglie unite e scombinate, di Natale quando è Natale davvero). Bene, all'epoca da mia nonna Tatà l'atmosfera era quasi sempre fumigante. Solo oggi mi rendo conto che a renderla tale non erano le pietanze, i fornelli sempre accessi o le bucce di mandarino sparse sul tinello. Era molto più semplicemente la presenza di mia nonna: matriarca discreta, con gli occhioni da cavalla selvaggia, dai modi spiccioli e dalla tempra dolomitica. La mattina del 12 dicembre la nonna tirava fuori un pentolone, che per poco non conteneva me e mia sorella messe insieme. Io e la zia, sedute al grande tavolo al centro della cucina, ci dedicavamo all'operazione di "annettaggio": selezionavamo i chicchi di grano uno a uno, togliendo quelli scuri, eliminando le pietruzze e i frammenti di spighe. Poi catapultavamo tutto nella pentola e aspettavamo che i chicchi scoppiassero. Ci voleva parecchio tempo, durante il quale  sgranocchiavamo buccellati, "simenza e nuciddi" e facevamo interminabili giri di "ti vitti" con le carte siciliane. L'aria intanto si riempiva degli aliti della cuccìa: era odore di cose primordiali, dolciastre, penetranti, impregnate dell'aroma delle foglie di alloro, che venivano a galla sul finire della cottura. Quel piatto, dalla preparazione meticolosa, mi incantava. Scrutavo dentro il pentolone aspettando che i chicchi emergessero dall'acqua aperti a metà e guai a infilarvi dentro un cucchiaio: "Mandi tutto in rovina -  mi ammoniva la nonna - la cuccìa non si gira". Solo oggi mi rendo conto che quel fascino mi veniva dalla lentezza di quella ricetta, che quasi diventava una posizione magica, tanto simbolica era la maniera di darle la vita.  La lentezza è una dote che oggi contemplo, ma che difficilmente riesco a mettere in pratica e in merito non mi concedo l'alibi che "mi manca il tempo". Questa è una delle scuse predilette dalla nostra generazione.
 Quando finalmente il piatto era pronto, ci disponevamo a tavola, ma in maniera informale. Non era mai ora di pranzo o di cena quando il grano scoppiava: questo era il bello! Improvvisavamo una tavolata quando non c'era l'obbligo scandito dai soliti rituali quotidiani. Nonna Tatà riempiva i piatti fino all'orlo e io annusavo compiaciuta quel fumo profumato, che mi entrava dentro le narici. Al centro del tavolo nonna disponeva enormi caraffe con latte caldo e poi vasetti di nutella vuoti e riempiti di stecche di cannella. Gustavamo quella pietanza come se fosse la cosa più buona del mondo, ben consapevoli che la cuccìa, a onor del vero, ha in realtà un sapore comune, quasi "trasparente". A renderla deliziosa era quel cerimoniale, quella lentezza, quell'attendere che il grano si decidesse a scoppiare. Era il piacere di condividerci con quel che c'era, dentro quell'aria fumigante, in una grande famiglia, che oggi, come tante altre grandi famiglie, non esiste più. Anzi no, esiste ancora, perchè i sentimenti, una volta condivisi, sopravvivono al tempo, alle fughe, ai rientri e perfino a certi diluvi universali della vita.

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