mercoledì 24 dicembre 2014

Benvenuti in paradiso!


Io non lo so se il paradiso esiste, ma voglio dedicargli comunque questa ultima casella del mio calendario. Lo faccio perchè, per la prima volta nella mia vita, e mi duole ammetterlo, sto mettendo in discussione se non l'esistenza, quantomeno l'amore di Dio verso noi comuni mortali. Mi capita questo a sommatoria di un grande dolore, l'aver visto sfiorire, nel corpo e nella mente, una persona a me cara, che accompagna la mia vita praticamente da sempre. Ma va be', questa è un'altra storia e oggi è Natale e non è tempo di storie tristi.

Dicevo del paradiso, la prima volta che l'ho immaginato mi pareva l'uscio di casa di nonna Stella. Era un giorno pieno di sole, quando gli occhi non ce la fanno a restare aperti, talmente forte è la luce che li abbaglia. Ho immaginato mia nonna fare la maglia, assorta e tranquilla, seduta dietro la finestra di casa sua, con quella beatitudine di luce a fargli da strada. Il paradiso? Lo immagino dentro un gran baccano, ma di quelli pacifici, che non stordiscono i pensieri, ma li rasserenano. Vedo lì in mezzo una colonia con dentro tutti i cani e gli animali del mondo, che se esiste il paradiso il posto d'onore lo meritano loro. Anche se la Bibbia non lo prescrive, io non riesco a immaginare l'iperuranio, ad esempio, senza cani. Non lo reputo proprio possibile. Che i cani sono creature che amano per amare, che se ne fregano di una sgarbo, di uno sgambetto o di un'omissione. Fanno della fedeltà la loro vocazione di vita e potrebbero rimanerti accanto sempre, se solo il ciclo dei loro giorni glielo consentisse. E penso che dall'altra parte loro possano giocare felici, tra fresbee, salsicce e montagne di nutella, senza dovere temere il diabete o il traffico della città. Poi in paradiso immagino tanti bimbi, tutti quelli che non sono mai nati. Quelli voluti dalle loro madri, ma indesiderati dal destino e anche e soprattutto quelli rifiutati. Lì, se Dio c'è, avrà previsto per loro un riscatto, un faccino roseo, una coperta calda, una ninna nanna e un giorno la possibilità di rivedere le loro madri e di stare per sempre al calduccio con loro, in quella perfezione che non sarà mai di questa terra. In paradiso immagino un sottofondo musicale, di quelli talmente belli, che a un certo punto non ti accorgi più che c'è. Che ne so, un Nuovo cinema paradiso o un Favoloso mondo di Amelie. Penso che non ci saranno password, nè inviti da accettare perchè si deve, nè facce brutte da sopportare, di quelle che quando ce le hai di fronte ti fanno sentire perennemente lo stomaco sossopra, come alla vigilia di un esame. In paradiso immagino che ci sia mio zio Santo, la persona più buona che io abbia mai conosciuto. In paradiso ci dovranno pur essere quegli atei che però hanno cambiato in meglio l'umanità. Da qui a cent'anni, per esempio, vuoi che il prof. Veronesi non finisca in paradiso? Sarebbe un'ingiustizia il contrario! E poi certi disadattati, quelli che nessuno li vuole, che girovagano per le strade - nel mio paese ne ho conosciuti diversi - che magari ogni tanto fanno volare una bestemmia, ma senza livore, senza che l'insulto gli parta dal cuore, ma solo da qualche parete di infelicità. A questa gente, a cui la vita la chance della fortuna non l'ha manco data, vogliamo negare il paradiso? E a certe grandi madri, che non hanno santificato le feste, ma hanno venerato l'altare delle loro famiglie, adorando i figli e preparando loro la strada, affinchè questa fosse la migliore? A loro, un Dio giusto, negherebbe il paradiso? Non credo, suvvia! Poi ragionando al contrario, io se fossi Dio non farei entrare in paradiso la tipa di un bar, che qualche giorno fa ha mandato a quel paese una povera vecchina, che voleva a tutti i costi un cornetto al cioccolato. L'ha trattata così male, che mi sono permessa di leggerle negli occhi una cattiveria ben più profonda di quel gesto di superficie. E quanto desolati erano gli occhi della vecchina. Io in paradiso non installerei i perbenisti, quelli che stanno lì incartati come una bomboniera e se solo salta un fiocchetto sono lì pronti a puntare il dito, che la perfezione si è inceppata e con essa anche tutti i loro meschini equilibri. Io poi in paradiso non farei assolutamente entrare quelli che giocano con l'innocenza degli altri. A loro sbarrerei proprio la strada a un passo dall'arrivo, così da fargli provare la desolazione che hanno martellato nel cuore gli altri. Penso a chi mortifica i bambini, a chi violenta le donne (nel corpo e nello spirito), ai padri assenti, alle madri immeritevoli, a chi demolisce la speranza di una vita che vuole nascere (che quando, ad esempio, sta per arrivare una nuova vita credo sia peccato mortale dire: "Ma sei proprio sicura di volerlo tenere?" e Dio, se c'è, deve pure appuntarlo da qualche parte, che questa sì che è la bestemmia peggiore!). Il paradiso? lo immagino leggero, una piuma appena, dove poter volteggiare come gli austronauti, facendo piroette, sorrisi e cacciando via tutti quei maledetti equivoci, che qui sulla terra ci sbarrano sovente la porta del nostro piccolo paradiso quotidiano. Buon Natale

Auguro a me e a noi di concederci il dono dell'essere noi stessi, di non doverci sentire felici per forza, di avere il coraggio di declinare un invito e di accettarne un altro. Di coccolarci, da soli o in compagnia e di assecondare ogni battito del nostro cuore. Vi ringrazio di cuore per avermi dedicato in questi giorni la vostra attenzione e un pezzo unico del vostro tempo. Spero di continuare con le mie storie e di ricevere ancora i vostri clic. Un abbraccio a tutti Maristella

martedì 23 dicembre 2014

Lettera d'amore


Voglio dedicare questa penultima casella del mio calendario a un uomo che non ho conosciuto personalmente, ma che tante volte ho "creduto di avere accanto". E' un maestro del giornalismo e mi ha insegnato ad amare quelle condizioni del mio mestiere che lo elevano al punto, da ripulirlo da tanto cattivo fare notizia. Scrivo di Enzo Biagi e voglio farlo ricordando il suo libro che amo di più, Lettera d'amore e una ragazza di una volta. Se avrete la pazienza, tra queste righe, volevo riproporvi una tesina, presentata lo scorso anno per il mio esame di idoneità professionale a Roma. L'esame fu scivoloso, inciampai parecchio e rischiai anche di non farcela. Biagi e le righe che gli avevo dedicato mi portarono bene. Decisi quel giorno di visitare il borgo dove il maestro era nato. Pianaccio: una modesta somma di case, incastonate nell'altopiano tosco-emiliano. Nell'impresa, la primavera scorsa, mi accompagnò Alessandro. Volevo vedere la gente di Pianaccio, sentire parlare di Biagi da chi lo aveva conosciuto, chè nei piccoli paesi, tra i parecchi vizi, c'è la virtù della compattezza. Arrivi nei borghi e se cerchi qualcuno, vivo o morto che sia, te lo fanno trovare. Il viaggio fu estenuante, attraversammo Pistoia e da lì ci inerpicammo tra la compagine di paesini bolognesi, di cui sconoscevo l'esistenza, sebbene io a Bologna abbia vissuto per un anno intero. Lambimmo pure il comune di Zocca, terra natale di un altro grande, il Blasco della nostra musica. E li non ho potuto non chiedermi come siano riusciti Vasco ed Enzo, sebbene a  latitudini umane, anagrafiche e professionali differenti, a venir fuori da quelle montagne e a puntare alla cima più alta dei loro sogni. Devono essere stati non solo bravi, ma parecchio tenaci, che in certi borghi la vita pare che si fermi e se non hai la forza di cavartene fuori, fai assopire sogni e desideri per sempre. Nel viaggio inciampammo in ruscelli, fiumi e vallate talmente in fiore, che per un attimo mi sembrò di trovarmi alle Serre, giù in Sicilia. Poi arrivammo alla meta. Pianaccio non era per nulla come l'avevo immaginata. Un paesino sì piccolo, ma coronato da certi comfort, che mi hanno fatto pensare che la Sicilia, ahinoi, sognerà per sempre di diventare italiana. Iniziammo a chiedere a destra e a manca e non c'era giovane, vecchio o adolescente che non avesse elogi per Biagi e per tutta la sua stirpe. Con le adorabili "s" pizzicate degli emiliani, ci accomodammo ad ascoltare aneddoti, a ricevere inviti alle commemorazioni del maestro e ci fu pure una tizia più audace, che, in un bigliettino, mi allungò numero di telefono e indirizzo di posta elettronica di una delle figlie di Biagi. Al cimitero non potei andare, perchè una frana aveva bloccato gli accessi. Mi piacque però di respirare l'aria del borgo, dove è nato il mio inarrivabile riferimento professionale. Ho compreso che l'essere provinciali, talvolta, è un privilegio, che irrobustisce i sogni, ma allo stesso tempo aiuta a non volare troppo alto, quantomeno finchè il decollo non è stato. completato. Ho immaginato Enzo e sua moglie Lucia innamorarsi, in quella festa di provincia di cui si parla nel libro. Ho tentato di rivedere quella maestrina con il golf a righe e una bella faccia pulita - come lui la descrive - a cui il maestro diede ogni cosa. E ho ripercorso quelle pagine che, ogni volta che le leggo, mi fanno commuovere, sentire piccina, desiderosa di essere migliore. Ci sono un paio di frasi che mi si sono incollate al cuore: L'avere nella gioventù la sola loro fortuna, per esempio. E penso che oggi delle proprie fortune non ci si rende mai conto per tempo. Poi la descrizione di quel matrimonio, celebrato nel bel mezzo del conflitto mondiale, festeggiato nel cuore dell'altopiano, con una torta fatta in casa e i battimani di una ventina di invitati. "Anche se intorno c'era la guerra, la povertà e la disperazione, quello fu il giorno più felice della mia vita". Questa frase, che letta d'un fiato può sembrare retorica, è una delle frasi lette che amo di più, nella mia mente a volte la contemplo. Che oggi per essere davvero felici è necessaria una somma di felicità. Altro che "inciampi" di guerra, povertà e disperazione. Oggi per far naufragare un proposito é sufficiente un accento fuor posto. Che di questi tempi la felicità è una ricerca, che se soddisfatta sopisce appena il languore di un attimo. E allora io immagino quel matrimonio, con tanto sole in faccia e un prato verde a far da scena. I vestiti fatti in casa, i brindisi e il lambrusco suadente e traditore. Sorrido e penso che se oggi di maestri così non ne esistono più la colpa è di tante cose. Della monotonia intellettuale, dei compromessi, della malapolitica, ma anche della felicità...che ce l'abbiamo in tasca ma poi la nascondiamo chissà dove e va così. Che un buon maestro deve anche sapere essere felice.
Ps: Alla fine vi ho risparmiato la manfrina della mia tesina
Ps 2: Alla figlia di Enzo Biagi, Bice, giornalista e direttrice di giornale, non ho mai telefonato. Non mi sarei mai spinta a tanto. Le ho però spedito una email, allegandole il mio elaborato. Lei rispose nel giro di poco e mi colpiì un suo augurio: "Cara Maristella, ti auguro di far bene prima che nel mestiere di giornalista, in quello di donna".
Questa casella è per te maestro Enzo!

domenica 21 dicembre 2014

Perchè odio il Natale


Io il Natale lo amerei e lo amerei profondamente, non fosse per quel paio di turbamenti che puntualmente mi provoca. Penso, ad esempio, che a Natale sia una profonda ingiustizia quando in una famiglia mancano i nonni. Mi riferisco a certi anziani con il cuore scrupoloso, la capacità di amare la famiglia a prescindere da qualsiasi perchè e la consapevolezza che, giunti all'inverno della vita, si possono cedere le armi e aprire totalmente il cuore ai buoni propositi. Parlo degli anziani che conoscono lo spirito dell'accoglienza e ne fanno una sorta di vocazione, dando ragione all'anagrafe che prescriverebbe, arrivati a certi traguardi della vita, di essere davvero sinceri, se non per natura, quantomeno per il dubbio di essere giudicati e puniti, una volta approdati al porto definitivo. E mi tornano in mente i miei Natali più belli, quando non mi rendevo conto che la vita mi aveva dato tutta la felicità possibile ed ero convinta che avrei potuto avere di più, di più e ancora di più. Avevo già una famiglia granitica alle spalle, con i miei genitori che non hanno mai dato un cenno di cedimento, facendomi sentire sempre dentro una roccaforte: che privilegio! Era il tempo in cui i miei nonni tenevano solida una famiglia monumentale, che per le feste aveva la presunzione di riunirsi occupando ogni ordine di posto, messo a disposizione dalla grande casa all'angolo di via Bonfiglio. Quella casa era l'approdo per tutti noi, come un faro, con quella sua luce perennemente accesa, fossero state pure le quattro del mattino. Eravamo in tanti, con teste, animi e pulsazioni differenti. Ogni tanto si sbeccava il piatto dell'accordo e volava un urlo, un contraccolpo, una discussione. Poi bastava una nota intonata, una sola, e, a modo nostro ridavamo vita a una fragile armonia. Chè è molto più facile sfasciarli i grandi sentimenti, che non costruirli (ah Fossati Fossati!). Durò così per anni, forse per decenni, finchè i nonni Cola e Tatà portarono il bastone dei capi famiglia, dei genitori di una volta, quelli che si sarebbero fatti ghigliottinare pur di non mettere in discussione l'unione con i loro figli. Quelli per cui la famiglia è un bene che va custodito a tutti i costi, ancor prima dell'amor proprio, che senza famiglia anche l'amor proprio diventa un'arida congettura. Erano i Natali rumorosi, che il rumore sa di casa, di vita da vivere, di gente che si muove e laddove c'è movimento c'è amore (ah Dante, Dante). Erano i Natale in cui le tavole restavano imbandite a oltranza, gli odori si mischiavano e nell'aria c'era sentore di mandarino, di vino, di arrosto e di zucchero a velo. Quando per caso, passeggiando per Palermo, magari dentro certi vicoli del Capo, inciampo in un odore simile a quello, mi batte forte il cuore e mi pare che d'un tratto mi si possano materializzare davanti i capelli bainchi di nonna Tatà e il bastone di nonno Cola. Mi stringo nel mio cappotto, mi fermo ed ho la tentazione di bussare alla porta e di intrufolarmi nella vita di quegli sconosciuti. Provo a immaginarli, che se da casa loro fanno uscire odore di famiglia non può che essere bello ritrovarvisi in mezzo. Poi vado avanti e mi accontento di ripararmi dentro un ricordo. Come adesso, che ripenso ai nonni Stella e Raffaele, che sono partiti troppo presto e la qual cosa mi fa arrabbiare ancora. Mi chiedo perchè sia andata così e sospiro  per tutte quelle cose belle che potrebbero ancora darmi. Mi amavano del tutto, con quella capacità rarissima di volere solo il bene della persona amata. E vorrei risentire anche solo la loro voce, che quasi non la ricordo più e la cosa mi addolora. Mi consola una sensazione intima: semmai esista il paradiso io li immagino lì, installati al calduccio, in un posto piccino, in un focolare dell'aldilà, con una macchina da cucire, una chitarra e un cane a tenere loro compagnia. Che il paradiso, se c'è, deve essere questo: un ritaglio di esistenza, il più bello, il più sereno, quello nel quale vorremmo vivere per sempre. Poi ripenso a una giornata come questa, quando la grande festa è vicina. Avrò avuto sì e no una decina d'anni e mia zia Grazia, una sorta di seconda mamma, mi portò a vedere uno spettacolo (un recital, lo chiamava lei) all'oratorio parrocchiale. A un certo punto, qualcuno propose ai bimbi di recitare delle poesie. Io volevo, ma esitavo e la zia mi guardò con fiducia e mi disse: "Vai". E questa cosa,  che è"una cosa come ce ne sono tante", io non l'ho mai dimenticata, la ricordo in ogni sua angolazione. E mi manca, ma di più mi manca mia zia. In queste giornate di festa, mi mancano queste verità, soprattutto quando devo fare avanzare il self control (dote che possiedo solo sul lavoro, ma che mi è carente in tutto il resto) e accomodarmi a certe tavole barocche, dove la prescrizione della perfezione è in cima alla ricetta del medico che sponsorizza le pillole della felicità.E io vorrei essere con le sole persone che amo e con i miei cani, a improvvisare una tavola, magari in riva al mare, ascoltando musica pop, mangiando quello che capita, bevendo vino a volontà e preoccupandoci, per un giorno, di essere solo felici. Che per un giorno il lusso della felicità e quello ancor più elitario della sincerità (per sè e per gli altri) può concederselo chiunque.

sabato 20 dicembre 2014

Buon cumple A



Deve essere davvero figo nascere a un passo dal Natale. Immagino la futura mamma piena come un uovo, con le gambe viola e turbolente, l'impazienza a sconfiggerle i buoni propositi e la schiena perennemente dolorante. La immagino sperare che l'uovo di Pasqua si apra in tempo, prima che i medici, quelli bravi bravi, spariscano per andare a festeggiare il Natale chissà dove. Bene, mio caro A (ti chiamavo così nel mio vecchio blog), tu sei nato a un passo dal Natale e oggi è il tuo "cumple". Ricordo che un po' di anni fa, proprio come oggi, noi ci davamo il nostro primo appuntamento: un vero disastro. Ci impantanammo al punto che io andai da una direzione e tu dalla parte opposta. Non vi fu verso di rimediare alla cosa, ma quella serata fu bellissima ugualmente, mi sorprese il fatto che in pieno inverno il cielo fosse pieno zeppo di stelle. Lo pensai come un buon presagio. Che dirti mio caro A, buon cumple. Sarei buonista se ti dicessi che in questi anni insieme sono stati solo rose, solo pianure padane e mari calmi della sera. Non è così. Non sarebbe stato naturale. In merito alla vita di coppia la penso come Woody Allen: è innaturale mettere a fianco due persone geneticamente diverse, in barba alle solite menate del "guardare nella stessa direzione". Eppure l'amore è il miracolo che consente l'amalgama, senza che i due sapori si fondano in uno solo. Ed è ogni giorno un coltivare, un comprendersi, un gioire e un accettare, un correre e un fermarsi. E' l'amore! Sai che elogio l'imperfezione e che non ho mai creduto nelle storie di cristallo, quelle bellissime, dove tutto combacia alla perfezione e non si permettono concessioni alle sbavature. In quelle circostanze ritengo che qualcosa di profondamente finto si stia insinuando tra Cenerentola e il suo principe azzurro. Questi anni sono stati una perenne navigazione in mare aperto, dove al timone della nave ci siamo alternati, dove abbiamo fatto scorte necessarie, rinverdendo la cambusa ora insieme, ora da soli. Mi hai sempre trattata da regina, pur rimanendo re. Non ho un carattere facile: sono sensibile, solitaria, ho certe assenze che amo custodire, ho la presunzione di pensare a certe mie verità come assolute. E pure tu non scherzi. Ma si sono mai visti grandi uomini con splendidi caratteri? Tu hai saputo prendermi per il giusto verso, senza mai far avanzare la parte più capricciosa di me. Io mi sono intrufolata nella tua vita da uomo in divisa, senza mai accettare alcun ordine. Tu abituato al rigore, io predisposta al disordine...eppure ci siamo scelti. Da allora ci siamo dati del tutto, nella reciprocità. Ed amarsi con reciprocità è la scommessa più difficile da vincere. Tu mi hai fatto sentire custodita, al riparo, nel posto più caldo del mondo. Io sono bizzarra e non so se ho saputo fare altrettanto, ma l'impegno è la mia costante quotidiana, al netto dei miei limiti, dai quali solo di rado mi smarco. Nelle tempeste abbiamo tenuto il timone insieme, lo abbiamo stretto aspettando che il vento passasse. Che a stare bene insieme quando tutto fila liscio siam bravi tutti, sono gli stordimenti della vita che rivelano ogni cosa. Sorpassarli senza guardare dall'altra parte è rischioso, ma ci si può riuscire.
 Il primo sentimento che ho provato per te è stata una solida stima, per i tuoi ideali, per la tua integrità, per il tuo passo sicuro, che non cede mai alla tentazione della spavalderia. Ho pensato di te che fossi la persona migliore del mondo...e lo penso ancora. Che dirti caro A, buon cumple e come ti scrivevo un tempo sul mio blog TAT tua Mariste :-)

venerdì 19 dicembre 2014

U zzi Leonardu c'è


Era un dicembre di una ventina di anni fa, quando, con una comitiva di giovani del mio paesello, pensammo di ammazzare la noia inventandoci una storia. Era dedicata a un certo "Zzi Leonardu", un tizio che aveva in sè la somma di vizi e virtù di tutta Casteltermini. Quel nome lo ispirò la scena di un film di Tornatore, L'uomo delle stelle. Certi dei nostri talenti e convinti che, prima o poi, qualcuno di veramente importante ci avrebbe sdoganato da quell'orizzonte di provincia, pensammo di allestire intorno a quella storia uno spettacolo di varietà. Lo immaginammo con il presentatore in smoking e onnipresente alla Pippo Baudo, con le ballerine, la valletta svampita, con l'orchestra, le coriste, i comici e quant'altro andasse di moda in tv di quei tempi. Eravamo talmente convinti del fatto nostro che, armati di carta e penna, ci incontravamo tutte le sere per definire ogni passaggio di quello che sarebbe stato il nostro show di esordio. Il proscenio ce lo avrebbe regalato il vecchio oratorio del caro e compianto "Padre Bonanno". Lì c'era un immenso salone, al fondo del quale troneggiava un palco, con tanto di sipario e di quinte: faceva al caso nostro! Ci dividemmo i ruoli, ci impegnammo, delegammo tutte le nostre serate dicembrine a far prove e controprove. Io cantavo insieme a una mia cara amica di allora, tale Agnese. Facevamo a gara a chi "urlava" di più, certe di avere un futuro spianato nel mondo del bel canto. Oh povera me, quanto ero illusa! A onor del vero avevo una buona intonazione (merito della "musicalità" e della pazienza di mio padre) ed un'estensione vocale appena sufficiente a canticchiar canzoncine, eppure, in quel carosello di emozioni, mi sentivo quasi all'altezza di Mina. La prima la organizzammo per il 28 dicembre e correva l'anno 1995. Che bellezza imbardarmi con un vestito in prestito, sul quale si distribuivano disequamente velluti, taffetà, raso e paillets. Era talmente lungo, che il fondo mi scivolava sotto le suole delle scarpe. All'epoca avevo un bel po' di chili di troppo, non conoscevo i tacchi ed il mio portamento non subiva alcune influenza da bon ton. Conciata da "signorina" ero ancor più goffa che non nella mia naturale mise en place in jeans Wrangler e immenso "felpone" Levis. Il cuore non mi era mai battuto tanto forte come quella sera. Il sipario era chiuso e sul palco, come galline e galli, ci muovevamo io, la suddetta Agnese e i "nostri" musicisti: i fratelli Peppe e Matteo Caltagirone e Carmelo Palumbo - loro sì che, quanto a musica, avevano il loro bel dal dire (dei talenti!). C'era Francesco Umina a far da mastro cerimonia, professionalissimo, con la sua bella voce da dj e con un frac grande due volte lui. Poi c'erano Nicola Palmeri e Peppe D'Angelo, la cui comicità adamantina fece fibrillare tutta la platea. Ed ancora Aurelia D'Acquisto, bellissima con la sua cascata di riccioli e dentro quel vestito sbrilluccicoso ed aderente, che le cadeva come ad una star. C'erano anche Enzo D'Urso e sua sorella Maria Teresa, Rosalia Rosselli e Gaetano Morreale, poi Matteo Di Blasi (simpaticissimo), Salvino Di Franco, Enzo Termini e Piero Minardi (spero di non scordare nessuno). Il debutto fu un successo, tanto che tutto il paese parlò di noi. Decidemmo di bissare e per l'occorrenza ci armammo anche di biglietti di ingresso, con tanto di albero di natale, stampato al computer (una rarità per l'epoca). Io gongolavo perchè in platea ci sarebbe stata anche una tizia milanese, lontana cugina di mia madre, che si trovava in Sicilia per il Capodanno. Quando la tipa in questione fece ingresso in sala tutti si girarono a guardarla. Convinta di andare in un vero teatro si era impalcata con tanto di abito da sera, pelliccia maculata, il tutto annebbiato da una dose massiccia di Paris de Yves Saint Laurent. Volava dieci metri sopra quell'adorabile pubblico di provincia, che la guardava come si adora una divinità celtica. Furono applausi e complimenti e deliri di onnipotenza ed emozioni. Pensavo che se solo in sala ci fosse stato uno famoso, mi avrebbe portata dritta dritta a Sanremo. Peccato che però il tizio famoso in sala quella sera non c'era :-) Avevo quindici anni, amavo la musica, le grandi compagnie e stare al centro dell'attenzione. Quest'ultima predisposizione, con l'andar del tempo, si è un po' sbiadita. Sono anni che, per scelta, non modero più convegni e non presento manifestazioni. Sono diventata riservata, il mio mestiere preferisco farlo scrivendo. La tastiera mi permette di essere me stessa e mi protegge gli occhi, quando questi si abbandonano ad emozioni troppo vere.

Dicevo di quella sera, in quell'oratorio, su quel palco fatto di pedane mi sentii esattamente felice, nel posto migliore per me. Non so se fu un caso o chissà cos'altro, ma dopo quello spettacolo non ce ne furono altri. O meglio, quella bella compagnia "artistica" si sparpagliò, tentammo altri esperimenti, ma nessuno fu bello, corale e profondo come "U zzì Leonardu c'è". Questa casellina la dedico ai giovani di quel 1995. Ormai siamo sparsi da un capo all'altro d'Italia, abbiamo preso strade diverse...io però ricordo quel momento che ci vide "condividerci". Lo ricordo con un sorriso, di quelli belli, che fai quando hai quindici anni, la vita é un giocattolo e tu, lí per lí, non sai cosa fartene.

giovedì 18 dicembre 2014

In sala operatoria? Ho pensato al mare



Entrare in sala operatoria? E' un occorrenza metafisica. Almeno per me lo è stato. Mi è successo tempo fa, per causa di una "robetta", come mi disse il medico nordico, che scelsi per operarmi. Nulla di trascendentale, solo un "pezzo" di troppo del mio corpo che andava rimosso. Eppure per fare quel passo, per prendere la rincorsa, considerata l'assenza d'urgenza, ci ho messo parecchio. Ho congetturato, studiato i pro ed i contro, mi sono relazionata con decine di medici e ho fatto appello a chissà quanti siti web interattivi in tema di chirurgia. Poi ho deciso. Ho confezionato ad arte una lettera e l'ho inviata in Veneto a uno specialista, il cui curriculum mi aveva convinta più delle decine di altri scrutati qua e là. Il medico, tempo una decina di giorni, mi rispose e fu un tutt'uno trovarmi con una data davanti e una fifa bestiale a scalpitarmi furiosa in petto. Inutile elencarvi le notti insonni, i cattivi pensieri e quanto mi marciava in testa in quei quindici giorni che mi separavano dall'ora X. Facevo ogni cosa come se fosse per l'ultima volta (esagerata, sì, lo ammetto. Ma sono una ipocondriaca storica, che posso farci). Ricordo ogni cosa di quel giorno, dal prericovero, con la neve alta alta, gli infermieri che offrivano tazze di the al limone e una cardiologa con le gote rosse e il sedere immenso, che mi installava i marchingegni per l'elettrocardiogramma. Poi l'attesa del grande giorno e io che la notte prima, convinta che dovesse essere l'ultima a mia disposizione, ascoltai a palla un' improvvisata platinum collection della Pausini. Poi la sala chiarissima, con gli infermieri e gli anestesisti vestiti di verde, io sdraiata sul lettino con gli occhi di un cane bastonato, l'odore penetrante, che tutti conosciamo, ma il cui nome è un mistero. Ha il sentore dell' ospedale, della paura, del vaccino quando hai cinque anni, della sala d'attesa del dentista, delle cose che "non vedi l'ora che passino". Poi arrivò il chirurgo, Riccardo. E' un abruzzese trapiantato al nord, con un faccione enorme, un sorriso ampio, che parte dalla bocca e gli accende il naso, gli zigomi fino ad arrivare al tripudio degli occhi (di questi sorrisi tendo a fidarmi, perchè si concedono del tutto). Una folta barba bianca e quelle maniche cortissime, malgrado fuori ci fosse il gelo. "Stellina", sibilò suadente, mentre il tic toc dei miei denti, delle ginocchia e delle braccia era un'orchestra per sole percussioni. "Stellina, hai paura vero?".

Nessuno mi chiama Stellina, tutti preferiscono Mari, Mariù, Marì, financo Marinù. Stellina si chiamava mia nonna, di cui in parte ho ereditato il nome. Ricordo ancora nonno Raffaele: "Stellì, Stellì", quanto la amava!

Riuscii solo a rispondergli con gli occhi e lui mi disse:

"Stellina, sei siciliana. Che fortuna la tua. Sai che ti dico, mentre ti addormentiamo pensa al mare...e quando torni a casa vai a ringraziare il tuo mare".

Poi ci guardammo negli occhi. Credo che in sala operatoria ci sia un istante irripetibile, che solo il chirurgo e il suo paziente possono comprendere. E' l'istante prima di tutto il resto, quello in cui il paziente affida del tutto la propria vita nelle mani di un'altra persona. E' una sensazione scivolosa, che ti prescrive di fidarti del tutto. E fidarsi del tutto è una delle imprese più alte a cui ci chiama la vita. Richiede buon senso, capacità di essere liberi e anche una "pizzicata" di follia. Mi addormentai e capitombolai in un limbo bellissimo, luminoso, perfetto, con ogni casella del mio corpo e della mia mente messa nel posto giusto. Mi risvegliarono le note di "Canzone" di Lucio Dalla. Lì per lì pensai di essere morta e di trovarmi in un angolo di paradiso riservato ai cantanti "fighi" e ai giornalisti free lance, pensai anche che da lì a poco mi si sarebbe materializzato davanti il palco di Sanremo. A portarmi con i piedi sulla terra fu Riccardo, il dottore. "Stellina!". Lo disse con dolcezza, ma al contempo mi piantò un ceffone in faccia, che ancora lo ricordo per quanto fu energico.

"Vedi non sei morta...sei ancora qui. Vai là Stellina, vai fuori che la vita è bella".

Gli sorrisi e pensai che quell'istante fosse uno dei più belli della mia vita. Tornare, dopo che qualcosa dentro di noi si è bloccato, è un privilegio immenso. Negli istanti che seguono il risveglio ti riprometti di cacciar via i tuoi peggiori difetti, di mettere in pratica i troppi buoni propositi, di solito giacenti nelle cantine dell'anima, di abbracciare e abbracciare ancora tutte le persone che ami, così come viene, senza filtri, nè imbarazzi, spinti  solo dalle bizzarrie dell'amore. Poi però la vita torna al proprio posto, con i suoi clichè, le frasi incomplete e i soliti irriducibili sbagli. Quel giorno però mi insegnò parecchie cose e questa casellina del mio Avvento voglio dedicarla al dottor Riccardo, perchè mi ha sorriso, perchè mi ha chiamata "Stellina", ma soprattutto perchè mi ha detto: "pensa al mare".

mercoledì 17 dicembre 2014

Nostalgia di un Capodanno trasgressivo






Il mio Capodanno più trasgressivo l'ho trascorso con mio padre. Ero in quel periodo della mia vita in cui da bambina stavo per diventare donna e la qualcosa mi infastidiva parecchio. Come da tradizione, il 31 dicembre eravamo tutti a cena dai nonni Cola e Tatà. L'adunata non prevedeva sconti: allestivamo una tavola con una quarantina di commensali, ci mettevamo su chissà quante bottiglie di Coca cola e di vino Porto Palo e poi un reggimento di antipasti anni '90, insalate russe, involtini di prosciutto, piccoli  e salatissimi bretzlen e ritagli di salmone affumicato, con un saporaccio che li rendeva immangiabili. Il cenone di san Silvestro era "spicciolo", giusto un paio di cose per accomodare, in vista del pranzo dell'indomani: sfincioni, arancine, calzoni alla palemitana e poi appena un assaggio di frittura mista di carne. Dicevo di quella sera di san Silvestro, subito dopo mangiato mio padre mi fece l'occhiolino e mi propose di uscire, così di soppiatto, senza scomodare la platea di parenti che stava facendo un augurale giro di tombola. Ci infilammo nella 126 bordeaux, mettendoci al riparo dalla nuvola di freddo che avvolgeva Casteltermini. L'autoradio ci bombardava di canzoni di Natale, tristissime quando il Natale è già passato. Decidemmo di centellinare tutto il paese e di farlo con devozione, talmente bello ci apparve in quella notte, che gli restituiva silenzio, immobilità e aria di sereno. All'epoca Casteltermini era un paese con i battiti del cuore al proprio posto. C'erano i negozi, il lavoro, i bambini, i giovani ed i vecchi. In queste giornate di festa, la piazza e i due corsi principali pullulavano di gente, con essi anche le insegne storiche: l'emporio Cordaro, Ardilio, la merceria di "u zzi Natale" e quella della "zza Graziedda". I due principali negozi di abbigliamento, Galione ed i fratelli d'Acquisto, in quel periodo erano ancora più in forma del solito. Grondavano di forestieri borghesi, che andavano a comprare giacconi, pellicciotti ed abiti da sera, in vista dei veglioni e delle gale dicembrine. Ricordo anche le file monumentali nelle pasticcerie dei fratelli Capodici. Per comprare "le cuddureddi", i bignè e le "sfingi d'ova" bisognava armarsi di santa pazienza e stazionare tra via Roma e corso Umberto per una buona mezzora. Ti intrattenevano i modi suadenti dei fratelli Capodici, del compianto Mario e di Enzo, simili in quel loro sguardo azzurro, che però guizzava in maniera differente.

In quel dopocena da ultimo dell'anno, il sipario del mio paese si chiudeva alla folla delle feste e si apriva solo a me e a mio padre. Eravamo gli unici in circolazione, in un quell'aria fumigante che usciva dalle case, dove tutti festeggiavano, qualcuno lanciava petardi e c'era anche qualche irriducibile scaramantico, che scaravanteva dalla finestra piccoli oggetti del tempo che fu. Con papà quella sera gustammo ogni centimetro del nostro paese, ci sembrò quasi di sentirne i rumori più profondi, dentro quel silenzio che rendeva chiara ogni cosa. Improvvisammo un gioco: osservando le finestre accese e i portoni addobbati, tentammo di immaginare le vite che vi abitavano dentro. Dai pochi indizi che uscivano, dal tenore delle luci, dalla maestosità degli alberi di Natale e dalle ombre proiettate verso l'esterno, costruimmo storie di famiglie opulente, alternate a vicissitudini di povera gente, che a tavola avrebbe messo un po' di niente, cercando di essere felice ugualmente. Chè a Natale e a Capodanno di essere infelici non è concesso. Mai! Poi andammo a casa dei nonni Stella e Raffaele, a sant'Anna. I nonni erano partiti da un paio d'anni (in pochi mesi di distanza l'uno dall'altra mi avevano lasciata e io mi ero parecchio offesa :-) ma quella casetta, nel cuore del paese, conservava ogni cosa di loro. Era tutto in ordine, in un nido che per decenni e decenni conservò l'amore di una coppia inossidabile, malgrado le arie cagionevoli della vita. Lì, sul vecchio giradischi, facemmo girare un disco di Mina e quando arrivò mezzanotte brindammo con l'amaro del Carabiniere, l'unica cosa alcolica trovata per casa. Poi sfogliammo vecchie riviste, ascoltammo musica e commentammo la vita, i disordini, financo un reportage, pubblicato da Gente, su Gianfraco Jannuzzo e Gabriella Carlucci (credo che all'epoca fossero compagni di vita). Intanto nell'altra casa, quella dei nonni Cola e Tatà i quaranta commensali continuavano il loro Capodanno e non so se si siano accorti o meno della nostra assenza. All'epoca non esistavano i telefoni cellulari, internet era un miraggio e ti potevi prendere il lusso di essere irrintracciabile, solo perchè per una volta ne avevi avuto voglia. Quella sera mi sembrò un regalo, un ritaglio di felicità dentro le solite cose da fare per forza. La ricordo con nitidezza, come se fosse stato appena ieri ed invece di tempo ne è passato, eccome. Questa casella del mio Avvento la dedico alle piccole cose, quelle che fai d'impulso con le persone che ami. Alla fortuna di saperle cogliere e alla speranza di poterle rivivere.

martedì 16 dicembre 2014

Benigni? Preferisco Francesco!


I toscani mi stanno tanto simpatici. Sarà per via di un mio caro zio, che ha vissuto tanti anni a Lucca e che ancora oggi aspira le gutturali e "annaca" alcune sillabe. Sarà perchè Firenze è una città che amo, perchè è lenta, silenziosa ed è una terra di mezzo, dove io e Ale ci siamo rifugiati, tra un giro e l'altro dell'Italia. Ieri guardavo in tv il toscanaccio Benigni e, mentre la platea del centro Rai lo osannava, io non riuscivo proprio a farmelo piacere. Mi pareva lezioso, perfino in quel suo "anguillare" tra una parola e un'altra, senza perdere di vista un solo pezzo del copione. Dalle mie parti, quando una persona si presenta con i migliori propositi, ma ciononostante qualcosa ti sfugge, si dice che il tipo in questione sia un po' "falsigno". Il catechismo di Benigni, ier sera, mi è parso appunto "falsigno", scontato, lezioso, perfino insopportabile, soprattutto quando il premio Oscar si è messo a parlare di danaro e io ho provato a immaginare il suo cachet per le due prime serate Rai. Ieri guardavo Benigni ma pensavo ad un altro toscano e il pensiero mi martellava in testa, con un tono di ammirazione e uno di profonda malinconia. Ho ricordato Francesco Nuti, un artista che ho nel cuore, che mi commuove, che mi entusiasma e che, quando lo rivedo in certi suoi film d'annata mi fa pensare: "azz interessante il tipo". Guardavo lo spropositato successo di Benigni e pensavo a Francesco. Non che voglia paragonarli, sono troppo diversi. Roberto ha saputo applicare il genio alla furbizia, facendo un business della sua indisciplina. Francesco è stato, ed è ancora, semplicemente un "piccolo" artista, che forse è inciampato in certe gigantesche molliche di pane, che la vita a volte ti mette a intralcio di strada. Che nella vita c'è modo e modo di rialzarsi. Ci sono i robusti che lo fanno in fretta, ci sono quelli che hanno bisogno di più tempo, c'è chi poi nella mollica di pane rimane impastato per sempre e la colpa non è di nessuno, è la vita e tanto il resto del mondo, prima o poi (più prima che poi) se ne farà una ragione. Non so perchè, ma ieri mentre guardavo Benigni mi è venuta una voglia immensa di rivedere un film di Francesco, che ne so "Stregati" o ancora meglio "Tutta colpa del paradiso". Lo avete mai visto questo film? Se non vi è capitato, procuratevelo e in una di queste serate lente e prenatalizie gustatevelo, da soli o in ottima compagnia. E' un elogio alla dolcezza, alle cose che restano, ai grandi sentimenti e alle indiscrete rinunce, che a volte ci chiede la vita. E' girato in un posto "alto" di quelli dove il cuore trova la pace, dove hai la sensazione che se allunghi un braccio, d'un tratto, possa spuntare Dio solo per prenderti la mano. C'è Francesco che in questa pellicola è "fighissimo" e poi c'è Ornella Muti, che intepreta Celeste: a mio avviso l'icona di una donna quando è bella davvero (altro che tette rifatte, capelli platinati e labbra canottate). Mentre scrivo, sto ascoltando "Sarà per te". Questo brano Francesco lo portò a Sanremo alla fine degli anni '80. Io, che ero una patita del festival, lo ascoltavo a ripetizione su una musicassetta comprata al mercatino del paese. Quella canzone mi commuoveva, anche se in molti la definirono di un noioso pazzesco. "E se il tempo passa sarà per te, e se non è mai presto sarà per te...". Caro Francesco, nella vita non hai avuto la fortuna che meritavi, ma se pretendessimo che la vita componesse i suoi giorni, distribuendo i giusti meriti alle migliori persone, non dovremmo camminare sui pavimenti di questo mondo. Meglio illudersi che, come dice Benigni, esista una disciplina rigorosa, che sarà applicata una volta passati dall'altra parte. O forse meglio accettare che la vita va come deve andare, con i suoi giochi di equilibrio, con certi malintesi che possono rovinare decine di esistenze, con le ombre cinesi, che ti stordiscono, con quel che è andato e con ciò che resta. Caro Francesco...di cose belle che restano tu ne hai fatte e io oggi ti dedico questa casellina del mio calendario...buon Natale!

lunedì 15 dicembre 2014

E se ci annusassimo come bestie?



C'è una cosa che amo fare, un mio rituale quotidiano. A fine mattinata, passo dal giardino sotto casa e mi piazzo nella parte più alta. Mi acciambello su un gradino e osservo Dafne e Palù, le mie due labrador. Me ne sto lì zitta zitta per una buona mezzora e mando al diavolo conti in sospeso, cattivi pensieri, scadenzari e frasi fatte. Credo che esistano al mondo poche cose rilassanti come l'osservare i cani, mentre loro sono impegnati solo "a fare i cani". Dafne e Palù sono sorelle, una ha quattro anni e vive con me da sempre, Palù ha appena compiuto cinque mesi e da settembre è dei nostri (Ale non ha mai condiviso la mia scelta di allargare l'orizzonte canino, ma Palù, da abile "femminuccia", lo sta conquistando). Sono profondamente diverse. Dafne è egocentrica, fragile - ah quegli occhi a forma di smarties!  E'sculettante, geisha, ma anche ribelle, incazzosa, tenerissima, darebbe la vita per me. Palù è ubbidiente, forte, rigorosa, indipendente, sguardo epicureo, pochi fronzoli, andatura da "pedigree", anche lei darebbe la vita per me, ma solo in cambio di un barattolo di nutella. Quando all'una abbiamo imposto la presenza dell'altra è stato un dramma. Avete presente certe epopee cinematografiche da matrimonio in pieno naufragio, con tanto di appendice rabbiosa e sanguinolenta? Le ho viste azzuffarsi, distruggere tutto quanto era possibile, poi ringhiare, guaire, soffrire e infine, in assenza di una soluzione migliore, darsi definitivamente le spalle. Da lì ignorarsi, fare digiuni e implorare, con quel loro singolare linguaggio, il diritto di essere il solo cane di casa. Mi sono scoraggiata e non nego che, lì per lì, ho pure pensato di rimandare al mittente la nuova arrivata (la piccolina era ostile, abbassava perennemente lo sguardo, mangiava a comando e non dormiva mai. Dafne era semplicimente preda di una costante sindrome premestruale - e vi garantisco che certe sindromi, nelle cagne, sono peggio che in noi povere umane). Non ricordo il come nè il perchè, ma d'improvviso le due sorelle si sono riconosciute, si sono annusate e poi leccate e leccate ancora. Le ho viste ruzzolare un giorno intero, ispezionarsi a vicenda ogni centimetro del corpo, esitare e poi ricominciare. Sarà un azzardo, ma oggi posso dichiarare che, a modo loro, hanno imparato ad amarsi. Vivono l'una per l'altra, rispettando i loro tempi, senza sottrarsi i pregi e rimarcando in continuazione i loro difetti: Dafne è sempre più appiccicosiccia, Palù ha un chè di felino, in quel suo scegliersi le coccole, gli orari dei pasti e la maniera di stare con gli umani. Quando le guardo capisco che i cani hanno un talento che a noi umani sovente manca: quando l'incomprensione ha la meglio, si abbandonano all'istinto, trovano una soluzione, la più semplice, la imboccano e il resto va da sè. E non esagero se penso che anche noi umani, quando i silenzi hanno la meglio e senza un perchè rischiamo di perdere anche le cose importanti, dovremmo imparare ad "annusarci come bestie" (come dicono tre bravi cantautori).

Il mio rituale si conclude sempre alla stessa maniera. Quando sono sazia dell'averle ammirate, mi faccio sentire, le chiamo con certi nomignoli, che solo loro e io comprendiamo. Loro mi corrono incontro come se quell'istante fosse il senso di tutta la loro giornata, come se avessero visto la Madonna, come se si fosse materializzato davanti a loro un quintale di salsicce, come Nibali agli Elisi a luglio scorso, come Tardelli dopo il gol nei mondiali '82. Mi saltano addosso, mi annusano, mi slinguazzano e mi amano in quella maniera profonda, netta da condizioni e da rancori, che, ahinoi, è solo prerogativa di chi umano non è. Dafne e Palù questa casellina è per voi :-)

domenica 14 dicembre 2014

Elogio delle "cose inutili"



Sono una persona parsimoniosa. Faccio di necessità virtù, e sebbene mi ritenga fortunata perchè in famiglia il lavoro non manca (la qual cosa, di questi tempi, è una manna dal cielo), sto sempre lì a far quadrare i conti. Il Lidl per me non ha segreti, le librerie le compro solo da Ikea e quando si tratta di look faccio puntuale bottino da H&M. Che io poi abbia un talento particolare nel leggere a scrocco da Feltrinelli, è cosa che decanto da sempre. Nella vita, però, non sempre si può filosofeggiare. Oggi, esausta per una lunghissima seduta di pulizie in casa, sono andata a passeggio ed ho esitato in una profumeria del centro. Ci ho pensato una, due, tre, dieci volte ed ho quindi scelto di devolvere una somma, che solitamente avrei investito in maniera altamente oculata (al limite in libri o dischi), in un vanaglorioso, seducente, costoso e inutile rossetto di Chanel. Lo desidero, lo guardo, lo strofino sul palmo della mano e lo annuso praticamente da anni. Non l'ho mai acquistato. Non costa un milione di euro, per carità. Costa una cifra che per i comuni mortali è solitamente uno spreco. Una somma, che mi è sempre parsa abnorme se associata a una futilità, a un belletto di poco conto, di cui mi sarei "stancata" subito dopo l'entusiasmo della novità. Oggi però mi sono deciso e l'ho acquistato. L'ho fatto con leggerezza, con superficialità, con il desiderio, per una volta, di fare una coccola al mio impegno quotidiano, alla dedizione costante e imperfetta, che ho per la mia famiglia, a quel senso del dovere che a volte mi sollecita, altre mi opprime. Regalarsi qualcosa di veramente inutile, sottraendo risorse al necessario, credo sia un modo per dirsi "mi voglio bene". E farlo è importante. Dedico questa casella del calendario dell'Avvento agli autoregali e a quelle inutilità che, se dosate con cura, possono salvare un istante e renderci impermeabili a certi insopportabili pungoli della vita.

venerdì 12 dicembre 2014

La cuccìa di nonna Tatà e la casa "fumigante"


Da piccola non festeggiavo mai santa Lucia il tredici dicembre. Chissà per quale strana "alchimia", in famiglia i festeggiamenti si anticipavano di un giorno. Non che non onorassimo la memoria della santa al giusto cadere del calendario. Giammai. Il tredici c'era astinenza rigorosa da tutto ciò che contenesse farina di grano (eccezion fatta per la panatura delle arancine, of course), salvo poi rimpinzarci a volontà di ogni ghiottoneria concessa dall'usanza. La vigilia, però, aveva in sè un sapore singolare. Sarà che il momento prima della festa è ancor più bello della festa in sè, perchè aspetti, perchè congetturi e speri che tutto vada per il verso giusto (cosa che capita assai di rado, quando programmi fin nei minimi dettagli una ricorrenza). Dicevo di quelle vigilie di quando ero bambina. Il dodici dicembre non andavo quasi mai a scuola, avevo sempre una scusa convincente. Una volta mi venne in aiuto anche una mezza "calamità" naturale. Di buon mattino, con mia sorella e con buona parte dell'esercito dei miei cugini, ci ritrovavamo da nonna Tatà. Lì, già dai primi di dicembre, l'aria era fumigante (e non me ne voglia il maestro Garcia Marquez se prendo in prestito un aggettivo da lui coniato e da lui favolosamente usato in molti dei suoi romanzi. Adoro il termine fumigante: mi sa di tepore, di casa in disordine, di miscugli di odori, di arrosto di carne, di salsa di pomodoro e di patate al sugo. E ancora mi sa di famiglie unite e scombinate, di Natale quando è Natale davvero). Bene, all'epoca da mia nonna Tatà l'atmosfera era quasi sempre fumigante. Solo oggi mi rendo conto che a renderla tale non erano le pietanze, i fornelli sempre accessi o le bucce di mandarino sparse sul tinello. Era molto più semplicemente la presenza di mia nonna: matriarca discreta, con gli occhioni da cavalla selvaggia, dai modi spiccioli e dalla tempra dolomitica. La mattina del 12 dicembre la nonna tirava fuori un pentolone, che per poco non conteneva me e mia sorella messe insieme. Io e la zia, sedute al grande tavolo al centro della cucina, ci dedicavamo all'operazione di "annettaggio": selezionavamo i chicchi di grano uno a uno, togliendo quelli scuri, eliminando le pietruzze e i frammenti di spighe. Poi catapultavamo tutto nella pentola e aspettavamo che i chicchi scoppiassero. Ci voleva parecchio tempo, durante il quale  sgranocchiavamo buccellati, "simenza e nuciddi" e facevamo interminabili giri di "ti vitti" con le carte siciliane. L'aria intanto si riempiva degli aliti della cuccìa: era odore di cose primordiali, dolciastre, penetranti, impregnate dell'aroma delle foglie di alloro, che venivano a galla sul finire della cottura. Quel piatto, dalla preparazione meticolosa, mi incantava. Scrutavo dentro il pentolone aspettando che i chicchi emergessero dall'acqua aperti a metà e guai a infilarvi dentro un cucchiaio: "Mandi tutto in rovina -  mi ammoniva la nonna - la cuccìa non si gira". Solo oggi mi rendo conto che quel fascino mi veniva dalla lentezza di quella ricetta, che quasi diventava una posizione magica, tanto simbolica era la maniera di darle la vita.  La lentezza è una dote che oggi contemplo, ma che difficilmente riesco a mettere in pratica e in merito non mi concedo l'alibi che "mi manca il tempo". Questa è una delle scuse predilette dalla nostra generazione.
 Quando finalmente il piatto era pronto, ci disponevamo a tavola, ma in maniera informale. Non era mai ora di pranzo o di cena quando il grano scoppiava: questo era il bello! Improvvisavamo una tavolata quando non c'era l'obbligo scandito dai soliti rituali quotidiani. Nonna Tatà riempiva i piatti fino all'orlo e io annusavo compiaciuta quel fumo profumato, che mi entrava dentro le narici. Al centro del tavolo nonna disponeva enormi caraffe con latte caldo e poi vasetti di nutella vuoti e riempiti di stecche di cannella. Gustavamo quella pietanza come se fosse la cosa più buona del mondo, ben consapevoli che la cuccìa, a onor del vero, ha in realtà un sapore comune, quasi "trasparente". A renderla deliziosa era quel cerimoniale, quella lentezza, quell'attendere che il grano si decidesse a scoppiare. Era il piacere di condividerci con quel che c'era, dentro quell'aria fumigante, in una grande famiglia, che oggi, come tante altre grandi famiglie, non esiste più. Anzi no, esiste ancora, perchè i sentimenti, una volta condivisi, sopravvivono al tempo, alle fughe, ai rientri e perfino a certi diluvi universali della vita.

giovedì 11 dicembre 2014

Buon Natale Pirata


Caro Marco,

questa casella dell'Avvento è dedicata a te. Sei sempre stato uno dei miei miti e poco mi importa se su di te si sia detto tutto e il suo contrario. Io in te ci credevo e ci credo ancora. Tu eri la mia favola sui pedali. Io con i miei tredici anni, tu, ventenne o poco più, con quella maglia della Carrera volavi sulle Dolomiti. Eri smilzo e quasi pelato, ma sapevi domare quelle cime, che quando le ho viste di persona mi hanno intimidita. Guardavo quelle tappe in un vecchio tv in bianco e nero, alle Serre. Quando scattavi il mio cuore partiva con te e mi portavi lontano: in quei posti alti dove puoi dare aria pura alla vita, dove pare che anche Dio, d'improvviso, possa fare capolino e farsi riconoscere perfino da noi comuni mortali. Il ciclismo è una mia passione: mi sa di imperfezione, di sacrificio, di salite, discese, cadute, traguardi e ripartite. E' uno sport intelligente, perchè ha un percorso, una traiettoria. E' una sorta di racconto, con i suoi eroi, gli ostacoli, gli aiutanti, l'oggetto del desiderio ed il lieto fine. E tu di quello sport facevi un'arte, in barba a chi ti vuole liquidare come quello "dopato". Caro Marco, i veri campioni, così come i grandi amori, li riconosci perchè hanno quell'attimo in più che la mente non afferra, che stordisce il cuore e le membra. E tu eri talento puro, perchè scattavi con le gambe, con la pancia, con la testa e con il cuore. Guardavi fisso un punto, che gli altri non scorgevano e poi e c'eravate solo tu, la vetta, la meta, il principio e la fine. Io voglio ricordarti così: fragile, come fragili sono le persone dalle intelligenze più robuste. Sottile, in quella linea che separava i tuoi mezzi sorrisi dai tuoi troppi pensieri. Eri un colosso, ma consistente quanto una foglia. E', vero, forse sarai inciampato, ma oggi su questo vorrei sorvolare. Ti ricordo come quel giorno in cui ti ho conosciuto, era il '99. Quel giro cambiò la tua vita. Partivi da Agrigento con il resto della carovana. Ti ho visto magro, pallido, pesante e fragile. Purtroppo il mondo, questo mondo, non è dei fragili. No, questo mondo è dei forti, di chi si barcamena tra la migliore offerta e il più improbabile tra gli offerenti. Quel giro d'Italia per te sembrò una giostra e non più una corsa a domar cime, a volare fino al cielo, a scattare con quel tuo cuore da pirata romagnolo. Qualche anno fa, a Roma, in tv, ho conosciuto tua madre. Aveva la tua bici e la tua bandana. Le strinsi la mano e un po' mi sono commossa. Toccai la tua bici e ripensai a quei batticuore, a quel campione smilzo, che incastrava giusto un paio di parole, quando i cronisti, nei tempi d'oro, lo incalzavano di domande. Tu rispondevi a tratti, con il piglio di chi ha la testa altrove. A te importava di pedalaere. Pensai alle salite della vita e che spuntarla spesso è un'impresa più grande di noi. Carezzai la tua bici e pensai ancora a quanto bello sia il ciclismo e a quanto mi piacerebbe un giorno, superare la paura dell'equilibrio, montare su e imparare ad andare in bicicletta.

mercoledì 10 dicembre 2014

Ode alla famiglia imperfetta



Amo le famiglie imperfette! Ah quanto le amo! Vengo da generazioni di lavoratori in miniera e ne sono fiera. I miei nonni ed i nonni dei miei nonni hanno passato parte della loro vita a raccogliere zolfo a chissà quante centinaia di metri nella pancia della terra. Gente con le braccia forti, con la speranza in tasca e con un senso del dovere e dell'onestà, ai quale mi inchino sempre. Nonno Cola non sapeva nè leggere e manco scrivere, ma non credo che a lui tutto ciò servisse. Era un uomo pragmatico, dal quale ho ereditato la schiettezza e certi modi ruvidi, che non hanno filtri di fronte alle storture della vita. Nonno Raffaele aveva la terza elementare, ma disponeva di una cultura del cuore, che manco generali, prefetti e signorotti (da me conosciuti "umilmente" e formalmente solo per via della lunga gavetta giornalistica) potrebbero essergli pari. Che l'intelligenza, come diceva un mio caro prof. di filosofia, non la impari a suon di titoli e blasoni. Non te la dà la laurea, o i gradi, o i sissignore. L'intelligenza te la infila in testa Dio quando sei concepito e nessuno te la può togliere. Intelligente nasci e intelligente muori. Dicevo della mia famiglia imperfetta. Ne vado fiera e oggi ho quell'assaggio di maturità per rendermi conto di tante cose. Su tutte che i miei genitori mi hanno lasciata libera di sognare il mio avvenire. Non mi hanno pensata medico, o avvocato o notaio. Non mi hanno mai messo addosso alcuna ansia da prestazione. Io andavo bene com'ero: sia che prendessi bravissima nel tema di italiano, sia che portassi insufficiente, nella "recita" delle tabelline. Lo confesso, ho 34 anni e ho studiato un bel po', ma tuttora sulle tabelline sono claudicante, se, en passant, mi chiedete quanto fa 8x6 io inciampo, faccio due conti e poi vi rispondo. I numeri non fanno per me, suvvia.

Ho visto i miei genitori dirmi di no quando (avrò avuto quindici anni) ho chiesto loro il permesso di fare un piercing, un viaggio con le mie amiche e di avere in dono uno scooter. Mi hanno detto sì quando ho scelto di studiare in città, quando ho parlato dell'incerta strada giornalistica, quando ho lasciato la Sicilia con pochi soldi in tasca e loro in dote mi hanno dato un forte senso di responsabilità e la costante che potevo farcela anche da sola. Ho visto i miei genitori litigare, amarsi, far pace e litigare ancora. Non li ho mai visti perdersi in smancerie, ma ho letto nei loro occhi un bene profondo, lo stesso che oggi mi dà tanta fiducia nel domani. Non hanno mai cercato di domarsi a vicenda, anzi! Perseverano nei loro difetti e questo li rendi ancora più unici. La personalità è una dote da difendere, è un talento che non deve cedere al compromesso del "quieto vivere". Ho visto mia mamma trafelata di stanchezza certe domeniche mattina, dopo una settimana dietro lo sportello dell'ufficio postale. L'ho vista senza trucco e con i capelli per aria: bellissima! Vorrei diventare grande come è grande lei: una quercia, a cui il vento scompiglia i rami, senza mai farli cadere. Mio padre è un Woody Allen di casa nostra (gli assomiglia anche parecchio, ma lui non ne va fiero). Ciò che in lui detesto è quanto di più ci accomuna: siamo bizzarri, spiriti liberi, amanti dell'arte e delle cose da improvvisare. Detestiamo le persone giudicanti, le cose da fare "perchè sennò pare brutto" e la confusione (in generale). Percepiamo a pelle un abbraccio "quando non è sincero" e con nonchalance ce lo scrolliamo di dosso, senza patemi d'animo. Fosse per noi ridicolizzeremmo la falsità, ma non sempre questo è possibile. Ricordo quando mio padre mi ha accompagnata a far gli esami di stato e il primo esame all'università. Gongolava di fierezza. Ma ricordo anche che una volta, di fronte a una mia crisi studentesca mi disse: "se non ti va di continuare lascia pure perdere, puoi pure fare la commessa, va bene lo stesso, basta che ti decidi!". Mio padre non lo sa, ma quelle parole mi hanno fatta volare e mi hanno definitivamente tolto ogni dubbio su quel che volevo dal mio domani. Della mia grande famiglia imperfetta stimo il sapersi accettare, il non ambire a criteri e meccanismi, che anche volendo non potrebbero essere nostri. Solo una cosa mi spiace, il non poter aver dato a mia nonna Stella (che aveva in sè un pizzico di megalomania) la soddisfazione di vedermi andare avanti negli studi e prendere per mano una professione: era il suo sogno più grande. Dedico questa casella del calendario dell'Avvento alle famiglie imperfette come la mia, quelle perfette non mi interessano. Ne ho lambite alcune: avete presente donne perennemente cotonate, suadenti, dense di flemma pure di fronte a una teglia di cannelloni capitombolata sul divano di pelle bianca?Be', gente di quel tipo non mi ha mai convinta:  palazzi dagli intonaci regali, ma dalle fondamenta di burro!

martedì 9 dicembre 2014

Lo zio Salvatore, dovreste conoscerlo!


 
La vecchiaia a volte è una virtù, altre il peggiore dei difetti. Oggi dedico questa casella dell'Avvento a mio zio Salvatore. Ha superato da tempo gli ottant'anni, ma vi prego non chiamatelo vecchio. A pensarci bene neppure io so con esattezza quanti anni abbia, perchè ogni volta che l'argomento casca sull'anagrafe lui svirgola e si finisce sempre per parlare d'altro.

Mio zio Salvatore è una delle poche persone che conosco, che della vecchiaia ha saputo fare un'arte, senza cedere al ricatto dell'indolenza, del rancore verso la vita (e la sua non è stata sempre una notte di san Lorenzo) o della compagine di acciacchi, che abbracciano l'anzianità. Zio Salvatore è un maresciallo dei carabinieri in pensione, ma nel suo cuore, ne sono certa, la divisa è rimasta attaccata come un tatuaggio indolore. Non che sia pedante e lezioso, come certi carabinieri di una volta. E' semplicemente amante del dovere, del senso del giusto, di quell'onestà di una volta, che vive di piccole cose e di rimando rinverdisce quelle grandi. Parla tanto lo zio, chiacchierare credo che sia la cosa che più ama al mondo. A un certo punto però si ferma e dice: "scusate ho parlato troppo:-)"

Ci sono un paio di cose che io e mio zio abbiamo in comune e che ci legano da sempre: la "filosofia" dei Panepinto, la scrittura e la lettura. Zio Salvatore, non mi stancherò mai di dirlo, è arrivato tanto lucido e arzillo alla sua "misteriosa" età perchè si ciba di parole. A differenza di molti anziani di mia conoscenza, che ciondolano per casa ora brontolando sul tempo "che è troppo caldo o troppo freddo", sulle nuore "che mio figlio poteva avere molto di più", sui vicini di casa "'sti maledetti stronzi", lo zio coltiva l'arte della parola che va a buon fine. Avrà scritto una decina di libri, che mi ha puntualmente donato, con tanto di dedica in seconda di copertina. Lui non lo sa, ma per me tutte le volte che leggo: "alla mia nipotina Maristella" mi vengono i lucciconi. Ho trentaquattro anni suonati e sentirmi vezzeggiata mi fa sentire il cuore al caldo.

Scrive bene lo zio, e lui lo sa. Ama la narrazione dettagliata, quella che non tralascia nulla. Correda mi le parole di scatti, che lui meticolosamente rintraccia nel mondo che lo circonda. A volte, quando leggo le sue pagine, vi intravedo anche un 'che di "semiotico"...e dire che quando lo zio era studente la semiotica non la conosceva nessuno. Mi piace quando mi racconta dei suoi nipoti: Marco, Valentina, Irene, Andrea, Rachele, Lorenzo, Filippo e poi i piccolissimi, con Davide, l'ultimo arrivato. Ha per ciascuno di loro un luccicare d'occhi singolare e sebbene io li conosca poco (vivono a troppi chilometri da me), quando lui "me li racconta", mi pare di averli di fronte.

C'è stato un momento della mia vita in cui ho compreso di volere tanto bene a mio zio. Avevo dieci anni ed era appena morto il mio adorato nonno Raffaele. Il giorno del funerale, tra il via vai della gente, molta della quale presenziava "al visito" con superficiale senso del dovere, ho intercettato uno sguardo dello zio. In mezzo a quella folla estranea, lui piangeva lacrime intime e nessuno se ne rendeva conto. In quell'istante ho sentito il mio cuore vicino al suo e i suoi occhi mi sono sembrati tali e quali a quelli di mio nonno. Gli volli bene e da allora non ho più smesso. Buon Natale zio e tanti tanti altri di questi giorni!

Ps: L'immagine scelta per questo post non è casuale, ovviamente. Da buon maresciallo, lo zio era abilissimo ad usare la macchina da scrivere. Da una decina d'anni, però, si è convertito all'uso del pc, diventando quasi un maestro del pacchetto Office. Che dire, immaginate la soddisfazione quando mio zio ottantenne mi invia email con tanto di allegato? E' fighissimo!

lunedì 8 dicembre 2014

Signor Pino, che bella quella giornata d'agosto!




Voglio dedicare questa casella del calendario dell'Avvento a Pino. Pino Mango. Facile, post mortem, tessere le lodi di chicchesia. Ancor più oggi, che a "partire" e d'improvviso è stato un artista che, a modo suo, ha messo una bella firma nella musica italiana. A onore del vero, però, a me Mango non è mai piaciuto. Fatta eccezione per una canzoncina sanremese, snobbata dai più, tale "Luce", Mango non mi ha mai fatto battere il cuore. Ho però un ricordo gradevole legato a questo artista. Era l'estate del 2002 e ad Agrigento, al teatro Valle dei Templi, ci sarebbe stato un concerto del cantautore lucano. Io, senza troppo entusiasmo, avrei dovuto intervistarlo. La mia fibrillazione nasceva dal fatto che a fare l'intervista sarei andata con un mio collega giornalista per il quale avevo perso, ricambiata, la testa. Una passioncella estiva, di quelle che ricordi con un sorriso, che lì per lì ti sembra un amore colossale e che poi sparisce con le prime piogge. Eppure quel dieci agosto, io e il suddetto collega ,eravamo esattamente felici. Ci sentivamo due anime gemelle, condividevamo praticamente tutto: film, musica, amori per certi libri e per certo scrivere, ambizione e autostima. La solita solfa da primo mese insieme: "saremmo capaci di sfidare il mondo, perchè oggi non ci siamo che noi, nient'altro che noi...là là là là". (Funziona o non funziona così fino a quando non vengono fuori difetti, paranoie, poi lui ti prende per matta e isterica e tu credi che ti sei messa con un emerito idiota).
 Al teatro dei templi, aspettando che arrivasse Mango, passammo buona parte di quel pomeriggio assolato d'agosto tra una colonna dorica e un'altra. Scattammo foto, ci confidammo segreti, progettammo un viaggio a Londra (o era Parigi, non ricordo) da fare il Natale seguente, con tanto di brindisi e di chissà che scambio di promesse. Ovviamente quel viaggio, come tutti i viaggi troppo sognati, non lo abbiamo mai fatto. Lui mi guardava languido e mi diceva che ero bellissima, la più bella del mondo. Io credevo a ogni sua parola e ricambiavo cotta come una mela. Ah la jeunesse! Ci svegliò dall'incanto un tipo dello staff per dirci che l'artista era arrivato e che potevamo accomodarci per intervistarlo. Scoprimmo un piccoletto di statura, dai modi gentili, dallo sguardo suadente. Non una posa, nessuna fretta, zero smancerie da "sono famoso ma sono simpatico e mo' ve lo dimostro".. Mi sembrò una bella persona e non fosse stato che quella era la notte di san Lorenzo e che io tenevo per mano un amore neonato, sarei pure rimasta ad ascoltare il suo concerto. Ed invece non ascoltai neppure una canzone, non una nota. Quella fu una serata casta e serena, come lo sono le serate degli amori che stanno per nascere e che credono di avere davanti tutto il tempo del mondo. Ogni volta che sento una canzone di Mango ripenso a quella giornata, a quella passioncella, agli amori perfetti che durano un istante (sennò che amori perfetti sarebbero), alla bellezza di quando hai vent'anni e ti senti "spettacolare"...buono spettacolo laddove ti trovi signor Pino, signor Pino Mango!
Caro A non ti ingelosire...eravamo ragazzi :-)


domenica 7 dicembre 2014

La vigilia dell'Immacolata, l'inverno romano e la mia cartolina "hot"



Della vigilia dell'Immacolata conservo un ricordo "romano". Era una delle stagioni più felici della mia vita, ed io, ovviamente, non me ne rendevo conto. Avevo venticinque anni, una laurea in tasca, uno stage in un'azienda prestigiosa e la presunzione necessaria per sentirmi invincibile. Beata me che, al tempo, cedetti al delirio di onnipotenza... che poi la vita, volenti o nolenti, ti fa decollare sopra piste incerte. Era appunto il sette dicembre e vivevo in un adorabile, puritano e vecchissimo collegio di via Urbana a Roma. Il rione Monti, per chi non lo conoscesse, è un set degno di Woody Allen: romantico, retrò, gustoso, lento. Condividevo la mia stanzetta umida con una collega lombarda, una certa Simona con il cognome tronco, che però non ricordo più. Era una ragazza dai capelli ricci e dalla pelle olivastra, alta quasi due metri, ossuta e resistente come un ulivo secolare. Non era simpatica, ma aveva il cuore pulito. Quel giorno a Roma faceva un freddo cane e noi avevamo in tasca, sì e no, una decina d'euro. Da buona siciliana rimpiangevo le vigilia di Immacolata da nonna Tatà, trenta intorno a un tavolo, a mangiare ogni ben di Dio e a fare l'alba giocando a tombola e al mercante in fiera. Quel giorno mi sentivo dannatamente malinconica e tristemente povera, non tanto per la mancanza di quattrini, quanto per l'assenza di tutto il resto. Con Simona principiammo di fare un giro in centro, dalle parti dell'Esquilino e proprio davanti alla basilica di santa Maria Maggiore ci fulminò un'idea: "E se comprassimo un gratta e vinci?". Da buona nordica Simona esitò, ma poi decidemmo di devolvere metà delle nostre finanze alla giusta causa. Acquistammo il biglietto, grattammo et voilà vincemmo 100 euro: un patrimonio. Ci abbracciamo, ridemmo, cantammo, ci mancò poco che non piangessimo per il privilegio del bacio in fronte della fortuna. Timidamente proposi: "Simona, e se con questi cento euro, crepi l'avarizia, organizzassimo una festa in collegio. La organizziamo alla siciliana, vedrai che ci divertiamo". Lei prima mi guardò storto, ma poi si allargò in un sorriso d'assenso, il più bello che io le abbia visto stampato in volto. Quando si è lontani da chi ci è più caro, poco importa se siamo del nord o se siamo del sud, l'idea del tepore ci rende tutti simili.

Andammo alla Sma e ci sbizzarrimmo tra salsiccia, tortellini, salmone affumicato, lambrusco, panettoni, panforti, ricciarelli e cannoli siciliani, molto molto distanti dalla vera idea del cannolo siciliano.

Chiamammo a raccolta tutte le fanciulle del collegio: Consuelo, che diceva sempre "Maremma maiala", Simona e Giorgia, le sarde tutte curve, Francesca la crepuscolare calibresella e poi Crì la catenese e la prediletta di tutto l'ambaradan: Victoria del Alambra.

Festeggiammo felici, con tortelli in brodo, salsiccia fritta, salami, mortadella e pane caldo. Dolci, vino e risate ubriache a fare da sottofondo. Eravamo strette strette in una cucina striminzita, con le mattonelle grigie di vecchiaia e di poca cura. Davanti a noi, dal terrazzino, vedevamo il palazzo del Viminale, con un bell'abete al centro del cortile. Ubriache di vino e di felicità, lo contemplammo almeno per un'ora, smangiucchiando biscotti allo zenzero dell'Ikea (cacchio che buoni). Coinvolte dagli ottimi propositi della sbronza ci lanciammo una sfida: "domani tutte in reggiseno e slip sul terrazzo, facciamo la nostra cartolina di Natale. Chi se ne pente finisce come la direttrice del collegio". (Finire come la direttrice del collegio, vi garantisco, non era una bella prospettiva). La mattina seguente, lucide, ma determinate, mantenemmo la promessa. Ci "sparammo" i completini intimi migliori, ci infilammo nei cappotti e poi su in terrazza. Lì ci disponemmo in bella mostra e con la complicità della cuoca, scattamo decine di clic nelle pose più storte e ridicole che si possano immaginare. Alla faccia delle suore, della direttrice e di quel collegio puritano nel cuore di Roma. Quella terrazza era stupenda e quella mattina noi eravamo tutte belle, come Claudia Schiffer, la Bellucci, la Campbell e forse anche di più. In barba a smagliature, cellulite e seni grandi come noci della California. Ci penso e sorrido e vorrei avere l'audacia di quel tempo, di quei venticinque anni in cui il mondo pareva stare a pennello nel palmo della mia mano e la cosa che mi faceva più paura era l'aereo quando stava per decollare. Buon settimo giorno di Avvento :-)
Ps: Ale, Ale, Ale non farci caso alla cartolina hot, dai :) :)

sabato 6 dicembre 2014

Letterina a Babbo Natale


Un bel po' di anni fa, a occhio e croce una ventina, mia sorella, all'epoca piccolissima, ebbe una brillante idea. Approfittò del mio primo fidanzatino (che come tutti i primi fidanzatini era innamorato pazzo) e gli consegnò la sua lettera per Babbo Natale. Fu furba al punto che specificò: "Se non puoi darla direttamente a Babbo Natale facciamo che Babbo Natale sei tu". Il fidanzatino in questione, adorabile persona, pensò bene di non deludere i sogni della mia sorellina. Data un'attenta scorsa all'infinita lista di regali, tra i quali figuravano anche una play station ultimo modello e un computer Olivetti, limitò i danni regalandole, ovviamente, il dono più "pop" dell'elenco. Era un bel peluche rosa confetto, che abbiamo conservato perchè è legato a un bel ricordo. Oggi mi torna in mente quel ricordo e sorrido. A pensarci bene mia sorella, che quella volta fu prontamente redarguita dai miei genitori (non ne condivisero la faccia tosta,)fece benissimo ad allargare cuore e pretese "al primo che passa". Pensavo a quante letterine a Babbo Natale sono rimaste nei cassetti della mia vita. Quante volte avrei voluto chiedere e non ho osato, avrei potuto avere e mi sono accontentata di quel restava. E allora scrivo qui una lista di desideri per Babbo Natale, che tanto lo so che esiste. Che come diceva non so chi: "non lo puoi vedere, ma questo significa che non esiste?".

Mio caro Babbo Natale,
quest'anno sotto l'albero vorrei trovare:
1) Un buono illimitato da Feltrinelli
Alessandro, amore mio, salta il punto 2 e passa direttamente al 3
2) Un invito a cena da Colin Firth
3) Una planetaria kenwood iperaccessoriata
4) Un buono per un pranzo da Cracco (per capire se poi Carlone è davvero tanto bravo o se 'sto menù degustazione da 200 euro è una sola pazzesca)
5) Ale che viene a mangiare da Cracco senza fare il gelosone alla sola idea che io possa subire il fascino di Carletto.
6) Un farmaco definitivamente risolutivo in tema di ipocondria
7) La faccia tosta per mandare definitivamente a quel paese un paio di persone che mi stanno sui "cabbasisi".
8) Un giro in aereo, a bassa quota, sul cielo di Parigi.
9) Esagero dai esagero: presentare il festival di Sanremo :-) :-)
10) Tornare a quando avevo otto o nove anni, anche solo per 24 ore. Magari d'estate, alle Serre, in agosto, quando fa buio alle nove e il cielo è maestro e gli alberi fanno ombra e vento.
11) Un capodanno solo io e Ale, come lo abbiamo passato un po' di anni fa. Pasta scotta, un buon vino, pochi metri ma gonfi di felicità.
12) Poi ci sono un paio di cosette serie, ma serie serie, ma queste dai non le chiedo a Babbo a Natale...

giovedì 4 dicembre 2014

Marianna, una grande donna dal "pessimo" carattere!


Oggi voglio dedicare questa casella del mio calendario dell'Avvento a una mia nuova amica. E' una donnona con i capelli platino, perennemente cotonati a mo' permanente anni '80. Ha gli occhi scuri, ora giocosi, ora severi. Quando mi guarda mi scruta talmente fitto,che a volte mi capita perfino di arrossire. Ha mani grandi e la bocca larga, sempre colorata di chanel n. 18. Si chiama Marianna ed ha 90 anni, in realtà li compirà tra un paio di mesi e lei è già pronta per autodedicarsi un "giubileo". Non è simpaticissima, anzi. Certi suoi modi ruvidi, quel suo parlare spicciolo e l'atavica voglia di mettersi al centro dell'attenzione, talvolta la rendono insopportabile. Ma ditemi voi, esistono forse grandi donne dotate di splendido carattere? Voglio dedicare queste righe in onore della sua forza. Marianna, tanti, tantissimi anni fa, quando la legge sul divorzio era un'utopia e in Sicilia la miseria era fitta come il "nebbiun" in Valpadana, ha avuto il coraggio di dire basta. Ha piantato in asso un marito, ad elencare i cui vizi annoierei me e voi. Lo ha messo alla porta nonostante lei non avesse un lavoro e appesi alle sue sottane vi fossero tre bambini, che insieme  non facevano manco dieci anni. Marianna si è rimboccata le maniche, ha affrontato la gogna popolare, i toc toc del prete, che la supplicava di tornare sulla retta via (come se lasciare un marito meschino fosse peccato mortale), le urla dei suoi familiari, che, dal primo all'ultimo, l'hanno ripudiata. Ha fatto le valigie, è andata lontano a cercare fortuna e l'ha trovata. Non prima di aver patito la povertà, la disillusione e la solitudine di chi cambia patria. "Ero certa che dalla merda sarei uscita, ci credevo davvero". Mi raccontava Marianna l'ultima volta che l'ho incontrata. Ha cresciuto i suoi figli con il cuore in pace "che, al momento giusto, li avrei consegnati al mondo." Quando la primavera della sua vita pareva esser trascorsa da un pezzo, Marianna si è anche innamorata e con l'uomo della sua vita ha passati tanti anni, belli "ed imperfetti", come dice sempre lei. Chiacchierare con Marianna ha il pregio delle cose che fluiscono. Dici ciò che pensi e sai che dall'altra parte nessuno ti giudicherà. Se poi ci metti un buon nero d'Avola e un panino con le panelle, Marianna sa essere la persona più felice del mondo. Da lei ho imparato che nella vita il coraggio non è mai abbastanza e quando crediamo di averlo perso, stiamo solo dando un valido alibi all'indolenza. Che la vita non è una profilassi, ma un gioco. Che le donne dolciastre, infiocchettate, di plastica, piacciono solo agli uomini piccoli. Che le cornici non servono a nulla se dentro non contengono un bel quadro. Buon Natale Marianna e mille e ancora mille di questi giorni!

mercoledì 3 dicembre 2014

La cena di Natale


Considerato che ieri vi ho frantumato i cosiddetti con le mie reminiscenze infantili sulla vigilia di Natale, le canzoncine, i nonnini e "tutto il resto appresso", oggi voglio essere più leggera. Vi parlerò di un libro che adoro. E' un testo molto pop, di quelli da "superclassifica", da leggere d'un fiato, sorridendo tra una riga e l'altra (che non si può mica sempre tartassarsi con "l'Ulisse" di Joyce). Il libro si intitola appunto "La cena di Natale" e lo ha scritto un simpatico giornalista  piemontese, che di nome fa Luca Bianchini (è lo stesso autore di "Io che amo solo te", il romanzo campione di vendite con i peperoncini in copertina).
La cena di Natale vi riconcilierà con tutti i Natale storti della vostra vita.
Avete presente quegli inviti che proprio non vi scendono giù, ma che, volenti o nolenti, dovete accettare?
Avete presente la signora spocchiosa, provinciale, riccona, bruttina ma riveduta e corretta da uno stuolo di make up e nail artist? Quella che ha il presepe Thun completo di 60 personaggi, l'abete canadese alto tre metri e mezzo, le tende Alviero Martini e le tovaglie Frette tutte rosse, con i fiocchetti scozzesi? Bene, lei è uno dei personaggi del romanzo e non poteva che fare la suocera. Da contraltare c'è una consuocera proletaria, vedova, affascinante, simpaticissima e tanto tanto imperfetta. Poi c'è don Mimì, cinquentenne panciuto, irresistibile e conteso. In mezzo una coppia di sposini sprovveduti, che, alle prese con il primo Natale nella "grande famiglia", è in bilico tra la sopravvivenza e la fuga. La cornice è Polignano, dove miracolosamente scendono chili di neve, che il mare inghiotte con avidità, così da non lasciarsi togliere la scena. E' un turbine di anatre all'arancia, tartare di tonno, millefoglie di tartufi e ogni ben di Dioo degno di un Carlo Cracco de noartri. L'atmosfera è quella rarefatta, che non è inconsueto respirare a Natale: ansia sottopelle (eccheppalle ritrovarmi a tavola con quella stronza, l'anno prossimo giuro che non ci ricasco), pseudo attacco di panico della sposina, mentre è alle prese con il brodo "senza dado", odio viscerale tra la suddetta e la di lei suocera e poi parenti serpenti, cognati morti di fame, indebitati per vestirsi da ricchi, anelli ultraglam spariti all'ultimo momento, mezzucci squallidi per avere la meglio sulle dinamiche familiari, storie che si incrociano, amori che si scollano, salvo poi rinsaldarsi un minuto dopo. "La cena di Natale" è una divertente parodia delle tante farse, a cui questo periodo, ahinoi, talvolta obbliga. Del resto chi non ha mai fatto una sonora litigata con il proprio marito sotto le feste? Chi non le ha mandate dietro a suocere, cognati e pronipoti? Dietro l'incedere apparentemente scontato del libro, c'è un messaggio che, ciascuno lettore, a suo modo, penso faccia proprio. Il Natale, al netto delle luci, dell'idea di felicità a tutti di costi e della voglia di perfezione, ha in sè un senso profondo di solitudine, di schiettezza, di difetto elevato alla quadrato di tutti i morbi familiari immaginabili. Non è un caso se le statistiche confermano che la maggior parte dei matrimoni naufragano definitivamente sotto le feste, che suocere e nuore si dicono addio per santo Stefano, che certi figli si smarcano dai genitori proprio nel mese di dicembre. E' dire che radice di questo ambaradan dovrebbe essere la nascita, povera e senza pretese, di un bambinello e da lì un messaggio universale di "pace, amore e bontà". (era il ritornello di una vecchia canzone del catechismo). Il libro, seppure lasci contenti, non si perde in un lieto fine che va da sè. Forse perchè di Natali perfetti non se ne festeggiano mai. O quasi! (La cena di Natale, Luca Bianchini, Mondadori editore - l'immagine utilizzata in questo post è stata scaricata da Google).

martedì 2 dicembre 2014

E anche se non fosse stato Natale ti avrei amata uguale...





Seppure con un giorno di ritardo, anche io voglio cominciare il mio calendario dell'Avvento. Odio dicembre per almeno un paio di buoni motivi. Nata sotto il segno del cancro, sono ipersensibile, la presa d'atto di una falsità mi lancia nello sconforto, sono crepuscolare per natura, adoro i film strappalacrime, le epopee spaccacuore di Garcia Marquez, le ballad "pallosissime" di Carmen Consoli e la mia canzone di Natale preferita è "Canzone per Natale" di Morgan (lenta, mielosa, tristissima...e vi ho detto tutto). Capirete quanto possano "ammalinconirmi" le lucine, gli abeti sparsi a macchia d'olio, le carole natalizie e quel "volemose bene" propinato a destra e a sinistra, manco fosse il segno della pace durante una messa solenne a piazza san Pietro. Eppure c'è stato un periodo della mia vita in cui dicembre mi faceva sentire esattamente felice.

Era da piccola, quando con i miei genitori vivevamo di quattro soldi, dividendoci tra una stanza in una pensioncina di Messina e un appartamentino nella parte antica di Casteltermini. Il Natale arrivava senza chiedere il permesso e io non dovevo far sforzi per renderlo indimenticabile. Avevamo un albero "sgarrupato" come lo era il conto in banca dei miei e come lo erano i regalini che vi trovavo sotto. Era sempre un po' sbilenco, tendeva a sinistra (in contrapposizione con le idee politiche di famiglia, decisamente centriste). Per tenerlo in piedi vi piantavamo dietro un manico di scopa, che mamma copriva di velina verde, giusto per dare un effetto mimetico. Lo vestivamo di palline multicolor, un po' gialle, un po' arancio, un po' verdi e ancora viola, rosse e dorate. Era tascio quell'albero di Natale, in un'epoca in cui andava già di moda il "tutto bianco e oro", "io l'albero lo faccio di quello 'vero', solo con le lucine trasparenti e i fili rossi, che rosso è il colore del Natale" o "quest'anno il blu elettrico fa tanto glam". Avevo già qualche compagna di scuola piccolo borghese, che a Natale inaugurava l'Avvento con stanze addobbate di tutto punto, in tema per colori e foggia dei decori (in bagno era il trionfo: lucine a incorniciate lo specchio e intoccabili asciugamani di lino rosso con tanto di abeti applicati a filet). "Se dovete asciugarvi le manine - intimava la mamma dell'amichetta, prima che entrassimo al gabinetto - usate l'asciugamano di spugna sotto il lavandino". E io invece usavo quello di lino, che se era appeso a qualcosa doveva pur servire!

C'era poi il mio presepe, dove i "pupi" avevano tutti proporzioni diverse. C'era un san Giuseppe alto la metà della Vergine e i re Magi "a bordo" di Camelli grandi quanto i pavoni (che poi, 'sti pavoni nel presepe, cosa mi signficano?). Il personaggio più bello era un pastore di cartapesta, che ogni anno riponevamo con la devozione, che si riserva a un oggetto prezioso. Quel "pupo" era di mia madre, da bambina lo aveva "preso in prestito" dal presepe di una sua compagna "piccolo borghese" (ammesso che di piccola borghesia possa parlarsi in un paesino come Casteltermini, dove il 99% degli abitanti è vissuto sottoterra a cavar zolfo). Quella statuina esiste ancora ed è sempre la più bella di tutti i presepi, che in questi anni hanno accompagnato i nostri Natale.

Il cenone della vigilia mi commuoveva. Da piccola lo festeggiavamo quasi sempre a casa dei nonni Stella e Raffaele. Papà, da buon figlio unico, desiderava a tutti i costi che la tradizione si rispettasse (io toccavo il cielo con un dito. Con il senno di poi, penso che mia madre non fosse altrettanto entusiasta, ma questa è un'altra storia :-)

C'era nell'aria un odore che ricordo ancora e se mi capita di inciamparvi mi fa venire i lucciconi.

Era profumo di cardi fritti, polpette cariche di pecorino e menta, "brusciuluni" al sugo.

Al tempo, almeno per noi, non esisteva il salmone, il tris d'affumicati, i vol au vent, la tartare, o i panettoni gastronomici farciti di patè de fois gras. Diavolerie conosciute solo molto tempo dopo. Ogni cosa era perfetta: dalla tovaglia usa e getta di carta rosso-brillantinata, ai bicchieri di plastica con stampato il faccione di babbo Natale con gran finale di tovaglioli di velina, con le stelle di Natale e gli agrifogli (nonna Stella faceva scorta da Rosetta la "putiara", un'adorabile signorina dall'età indefinibile, con una montagna di riccioli corvini e un sorriso largo e perennemente installato tra le labbra e gli occhi).

Per creare l'atmosfera, cercavamo in tv un film di Natale. Il mio preferito era "Il principe e il povero". Non so so perchè quella pellicola mi riempisse il cuore al punto da farmi sentire migliore. Dai nonni non c'era nè l'abete nè il presepe, eppure lì il calore del Natale si sentiva come in un alcun altro posto al mondo. Concludevamo il cenone con la "pignolata" e con lo spumantino fatto dal nonno. E io volevo che quella serata non finisse mai, che durasse per sempre, che per tutta la vita fosse la vigilia di Natale. Ero al sicuro, con il cuore al caldo e la mente in pace...ed era davvero Natale.

Ps: Se vi va di leggere questo post ascoltando in sottofondo la canzone di Morgan (giusto per "attassarvi" un po' di più) la linko di seguito
https://www.youtube.com/watch?v=h5K_ntt9InU.

C'è una frase che adoro in questo brano: "C'è il temporale e anche se non fosse stato Natale, ti avrei amata uguale". Sarà che sono nata sotto il segno del cancro, ma il mio dispensare amore o i suoi opposti non subisce (quasi) mai mutazioni genetiche. Neppure a Natale. Morale della favola: chi mi sta sui cosiddetti tutto l'anno, a Natale "mi ci sta" ancora di più! Che se mi stai lassù da sempre, perchè mai devo essere così ipocrita da amarti  giusto giusto a Natale? Mah, sarà anche per questo che odio il mese di dicembre :-) ;-)