“Un Natale senza regali non è un vero Natale”. Avevo nove
anni quando lessi per la prima volta questa frase.
Non sapevo che quelle nove parole mi avrebbero, in qualche
maniera, cambiato la vita.
Di Natale senza regali non ne avevo conosciuti. Ero una
bimba fortunata ed ovviamente non ne avevo contezza. Quell’anno a mia
madre venne in mente di regalarmi un libro. Me lo fece trovare sotto l’albero
insieme a non so quale gioco (che, sicuramente, era l’oggetto del desiderio di
quella mia parentesi d’infanzia).
Quel libro lo lessi d’un fiato. Una volta finito, però,
provai una sensazione nuova: mi sentii sola. Maledettamente sola. Sentimento,
questo, che non credo si addica (almeno non dovrebbe) a una bimba di nove anni.
Al contempo compresi una delle tante
doti del buon leggere: il ritrovarsi nella migliore delle compagnie.
Decisi di rileggere il libro una seconda volta e vi scoprii,
con mio stupore, cose nuove, taluni particolari che l’occhio e la mente, in
prima battuta non avevano colto.
Giuro che, terminata la seconda lettura, non fui contenta e
lo rilessi ancora. Mi tenne compagnia per tutte le vacanze di Natale. Ogni
giorno aspettavo che arrivasse il momento di sfogliare le pagine di quel libro
con la copertina rigida, azzurra, sbeccata agli angoli. Mi piaceva soffermarmi
su talune frasi e poi tornare indietro a rileggerle, una, due, tre volte.
Domandare a mia madre cosa significasse “quella frase difficile” e poi
affondare il naso tra le pagine, mentre le lasciavo scorrere veloci sotto le
dita. Odore di libro: dovrebbero farci una candela profumata, di quelle che
vanno tanto di moda ultimamente. Quello era il momento più bello della mia
giornata.
Leggevo e rileggevo e nel frattempo mi ritrovavo di fronte
quelle quattro sorelle, tutte belle, ciascuna a suo modo. Meg, Amy, Beth e poi
la mia preferita: Jo. Avvertivo sulla pelle il calore di quella famiglia solida
e ne desideravo, un giorno, una uguale: numerosa, calda, con un solo gesto a
distinguerla, le braccia sempre aperte. Immaginavo la mamma capiente, come
devono essere tutte le mamme. Coraggiosa e infrangibile. Un albero secolare,
meglio ancora, una radice.
Più di tutti mi incantava Jo, che non mi somigliava affatto
in quel suo temperamento da maschiaccio scorbutico, audace, con la risposta
sempre ad altezza di lingua. Io ero un anatroccolo timido. Avevamo però in
comune una certa aria sognante e il piacere nell’inventare storie. Io mi
dilettavo ed ogni tanto le infilavo in una busta, un bel nastro sopra e le
regalavo alla maestra Pina, la mia prima fan.
Finita la terza lettura del libro, decisi: da grande voglio
fare Jo March! Sarebbe stato bellissimo. Sarei diventata una leonessa ma con le
trecce castane, avrei tenuto testa a chicchessia e soprattutto avrei scritto
romanzi e romanzi ed ancora romanzi. Dalla sera al mattino. Nel frattempo avrei
avuto quattro o cinque figli, crescendoli in una casa ad angolo, fumigante, con
il camino acceso e la tavola apparecchiata a tutte le ore. Profumo di the e
biscotti nell’aria e in sottofondo certe canzoncine natalizie, che a noi donne
piacciono tanto. Ovviamente avrei avuto una domestica, grande e grossa come una
matrona. A lei il compito di essermi confidente e di fare tutte quelle cose
noiose che a casa nessuno vuol fare. Questa sarebbe stata la mia vita. Lo avevo
deciso ed il merito era stato tutto di quel libro trovato per caso sotto l’albero
di Natale. A distanza di quasi tre decenni, pochi giorni fa, gironzolando da
Feltrinelli con Raffaelino, ho rivisto un’edizione di quel romanzo. Non era
quella con la copertina azzurra, rigida con al centro un disegno romantico di
quattro ragazzine ben vestite. Chissà se quella esiste ancora. Ho preso il
libro, riletto quell’incipit e ho lasciato scorrere veloci le pagine sotto il
naso. Solo così si riesce a sentire l’odore esatto di un libro. Che profumo
delizioso!
Piccole donne resta il mio romanzo preferito e il suo
incipit uno dei migliori mai letti. Quelle nove parole mi fanno sentire a casa.
Nella casa dove ho imparato a fare grandi sogni, dove ho indossato un abito mai
dismesso, dove ho scelto un mestiere, che a volte zoppica, altre prende certe
rincorse da togliere il respiro. Quel Natale mi regalò una strada in salita, ma
anche quelli che sarebbero stati tra i battiti più profondi del mio cuore. Quel
libro doveva essere solo un supplemento a un gioco desiderato chissà come e
chissà da quando. Il libro mi è rimasto nel cuore per sempre, di quel gioco non
ricordo nulla. Alle Piccole donne di Louisa May Alcott dedico questa casella
del calendario dell’Avvento. A loro dico grazie, per avermi donato il grande
amore per lettura: una delle cose più belle della vita.
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