Mio nonno Cocò fumava la pipa e sembrava un lupo di
mare.
Baffi all’inglese, occhi neri come le notti di inverno,
mandibola spigolosa. Era un uomo dall’aspetto importante: un metro e novanta
distribuiti in un corpo robusto, che neppure la vecchiaia e i troppi malanni
avevano reso pesante. Indossava sempre la giacca e il gilet, anche quando non
usciva più di casa e le sue giornate cominciavano al mattino presto e pareva
non dovessero finire più. Aveva un certo bon ton, una dote innata che nessuno
gli aveva insegnato. Lui a scuola non c’era mai stato. Neppure per un giorno.
Se lo guardavi d’improvviso, faceva paura. Non perché fosse
brutto o cattivo. Tutt’altro. Quanto per quel suo piglio ruvido, che arrivava
sempre prima dei suoi pregi.
Rideva poco e con gli estranei non lo faceva quasi mai.
Quando capitava, però, esplodeva in una risata fragorosa, di quelle lunghe e
coinvolgenti, che mettono in moto tutti i muscoli del viso, ma ancor prima
quello principale: il cuore. Se nonno Cocò rideva, non potevi che rincorrere la
sua risata e arrivare, insieme a lui, a un paio di lacrime di felicità. Un
istante appena, che però era bellissimo e del tutto immotivato.
Mio nonno rideva a crepapelle quando guardava i film di Charlot
o quelli di Stanlio e Ollio. In questo periodo dell’anno, capitava che li
guardassimo insieme. Ci acciambellavamo nel tinello della casa all’angolo e in
quel clima, perennemente fumigante, passavamo interi pomeriggi dicembrini a
guardare quelle vecchie pellicole, trasmesse in continuazione su Rai 2. Sono
sincera, a me non piacevano un granché. Non ero figlia del bianco e nero e
quella comicità antica mi suscitava poca allegria. Mi piaceva però passare del
tempo con quel nonno che, lo ammetto, non era il mio preferito e non per suo
demerito. Parlava poco nonno Cocò e se lo faceva ci infilava dentro qualche
racconto della “surfara”. Lui era stato caruso di miniera e non esagero se
scrivo che, quando a scuola lessi per la prima volta “Ciaula scopre la luna”,
vi rintracciai tante delle cose che il nonno raccontava. Lui piccino, i
pellegrinaggi al buio verso un posto che era pane ed era morte. Capitò, una
volta, che nonno Cocò cadde giù dalle scale. Un incidente banale. Venne il
medico e gli scoprì le spalle. Erano una mappa di quella vita trascorsa tra le
viscere della terra a rischiare ogni giorno di non tornare. Quella volta mi
commossi e capii che gli volevo bene. Che gliene volevo tanto. Compresi la sua
mandibola spigolosa, i suoi modi ruvidi, i silenzi e gli occhi colore delle
notti di inverno. Capii che il nonno, sin da bambino, si era ammaestrato all’idea
del dolore, al punto da non farci più caso.
Nonno Cocò distribuiva l’amore a modo suo. Come quella volta
che venne a prendermi a scuola. Non guidava la macchina, per lui una
diavoleria. Si piantò davanti al palazzo scolastico un’ora prima che suonasse
la campanella. Pioveva e si bagnò da capo a piedi. Ma non si mosse. Poi mi fece
largo sotto il suo impermeabile e andammo a ripararci alla pasticceria
Capodici. Mi comprò non una, ma due iris con la crema. Ero piccola piccola,
eppure di quell’episodio ricordo ogni cosa, financo l’odore di quella pioggia
settembrina, che si infrangeva contro quel giaccone, che mi pareva una capanna.
Per san Calogero, ogni anno, organizzava una gran festa in suo onore. L’onomastico
era la sola volta in cui si autocelebrava. Radunava la grande famiglia, di cui
oggi non resta quasi nulla. Quaranta persone a battergli le mani. Lui a
capotavola a raccogliere il merito di una vita con tanti spigoli e poche
discese. I compleanni non gli interessavano: morì con tutti i sentimenti al
proprio posto, ma senza ricordare quanti anni avesse.
Una volta a Capodanno ci stupì tutti quanti con un valzer.
Invitò a ballare nonna Tatà, sua compagna per sessanta e passa anni. Non li
avevo mai visti scambiarsi una coccola. Quella sera compresi che si erano amati
e che si amavano ancora.
Nonno Cocò…se ci penso l’ho conosciuto poco, sebbene mi sia
stato vicino per tanto tempo.
Aveva una bella risata, una risata “grassa” che “contaminava”
chi gli stava accanto. C’è una foto del mio bambino, una delle prime in cui lo
immortalo nell’attimo del sorriso. In quello scatto, solo in quello, somiglia
tanto a nonno Cocò. Quando si dice, gli strani giochi della genetica. Ogni
volta che guardo quella foto sorrido e ricordo i pomeriggi di dicembre a
guardare i film di Charlot o quelli di Stanlio e Ollio. Quella comicità demodé,
che io quasi non capivo e che un po’ mi annoiava. Eppure rimanevo lì. Mi piaceva
stare con mio nonno, che in quei momenti era quasi felice. Quasi.
Questa casella dell’Avvento è per te, nonno Cocò…
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