mercoledì 1 novembre 2017

Il piatto dei morti e la felicità del due novembre




La festa dei morti, quando ero bambina, era la mia preferita. Lo era ancor più del Natale, che già allora mi metteva addosso un pezzetto di malinconia.

Quello per “chi è partito”, in Sicilia, è un culto buono, consolatorio, che profuma di storie antiche, di frutta Martorana, di zucchero sparso nell’aria, di foto antiche, di stupore di bimbi al risveglio del grande giorno. Perché il 2 novembre è (almeno un tempo lo era) un grande giorno. Nella notte tra Ognissanti e il 2 novembre, chi ha lasciato il sipario della vita, torna a calcare la scena. Lo fa per una notte appena, con la condizione di procedere in punta di piedi, di accennare qualcosa sottovoce e di spargere doni ai piccini, senza l’infertile condizione che questi siano stati buoni. Così almeno mi hanno insegnato da piccola. Fortuna che alcune delle cose, che impari nell'età più bella, le installi nello scaffale delle verità e lì restano per sempre.


 Ricordo a memoria i pomeriggi a casa di nonna Tatà. A metà ottobre, la nonna e la zia Grazia allestivano nel tinello una sorta di tabernacolo. C’erano una ventina di foto e per ciascuna un cero votivo. C’era una coppia elegante. Lui in bombetta, frac e baffi all’inglese. Lei sottobraccio: un donna superba. Pelle di cera, avvolta in una pelliccia da nobildonna, dalla quale spiccava un girocollo di brillanti giganteschi, che sarebbe risultato pacchiano indosso a chiunque, ma non a quella “principessa” che dicevano mi venisse parente. Erano zii. Zii di un tempo lontano. Vissuti e morti chissà dove, nel cuore ricco dell’America. Forse neppure la nonna li aveva mai conosciuti. Forse quella foto, gli zii d’America, l’avevano scelta chissà in quale catalogo dei sogni e l’avevano spedita, fin dentro la Sicilia, per illudere, chi era rimasto, che sognare in grande è concesso a tutti. Che fortuna! C’era poi la foto di un tizio con la tromba. Pareva Louis Armstrong, solo di pelle chiara. Le guance a esplosione, nel gesto di buttare fuori quanto più fiato possibile. Anche quel giovane, baldo e riccioluto, chissà se è mai esistito. Poi c’erano i “morticeddi” privilegiati. Quelli che erano esistiti davvero e che si erano installati talmente bene nel cuore dei vivi, da meritare il posto d’onore. Lo zio Calogero e la zia Vincenzina erano fra questi. Due nomi che nonna pronunciava con un amore così grande, che ancora ricordo il timbro della sua voce nel dire: pinu Calò e pina Vicinzì (con quei “pinu” e “pina” che rafforzavano il concetto). Alle cinque in punto del pomeriggio, a casa di nonna si radunava una piccola platea di fedelissime (vicine di casa, parenti, compari di banco in parrocchia) e partivano le interminabili giaculatorie. Adoravo quelle giornate. A Casteltermini c’era un freschetto già tardo autunnale. A casa della nonna si accendeva l’enorme stufa e gas e mentre si pregava, a turno, qualcuna delle oranti, rosario alla mano, metteva sul fuoco la moka da dodici e stendeva sul tavolo la tovaglia ricamata a punto erba. Pregando pregando, si sgranocchiavano taralli, tetù e reginelle, ed ancora castagne arrosto, semi di zucca e di girasole. Ci si allungava a turno un plaid scozzese, che era confortante al pari di una carezza sincera. Quando terminavano le orazioni, partivano i racconti. In quel momento i morticeddi parevano uscire dalle foto. Ciascuno con la sua storia. Con la punteggiatura fitta, dove le virgole stavano per le disgrazie e i punto e a capo per i momenti felici. Ogni tanto nonna Tatà asciugava una lacrima e ricominciava, con quel suo talento singolare nel narrare storie dense di incroci, bivi e svolte obbligate.

Il due novembre il primo sguardo era alla scrivania. Lì, in trono, c’era il piatto dei morticeddi. Era bellissimo, con quella pupa di zucchero enorme, colorata ma impossibile da mangiare. Poi la frutta martorana: il ficodindia era il mio preferito. Non lo mangiavo mai. Lo conservavo per mesi, finchè la muffa non aveva la meglio. Una volta nonno Raffaele, che sapeva far bene il mestiere di nonno, mi portò in tutte le pasticcerie del paese (all’epoca erano tante: fumiganti, con code lunghissime di compratori e scaffali traboccanti di delizie) alla ricerca del cestino più bello. Vinse un adorabile borsetta in vimini, con un fiocco celeste al centro, piena di frutti di marzapane. Era esposta da Capodici in via Roma. Per entrare, dovemmo farci largo tra due ali di folla: la prima era in fila per i biscotti, la seconda per il marzapane. Nonostante la calca, riuscimmo nell’impresa. Misi la borsetta sottobraccio e passeggiando per il corso pieno di gente mi sentii esattamente felice: io, mio nonno e quel cestino che era sicuramente il “cannistro” “””oioi più bello che i morticeddi potessero calare sulla terra. Di primo pomeriggio si andava al cimitero a ringraziare i morti: la nonna Piddra (all’anagrafe Giuseppa. Era stata una ragazzina talmente graziosa che tutti la chiamavano Beddra Beddra finchè, forse per comodità fonetica, lei stessa non decise di ribattezzarsi Piddra) e poi suo marito, il (bis)nonno Girolamo (sceso un giorno in miniera e mai più risalito. Aveva quarantanni. Ma per chi faceva quel lavoro, erano già abbastanza) ed ancora i (bis)nonni Carmela e Santo. Nei paesi usa che i bimbi, nel giorno dei morti, indossino i vestiti nuovi e le prime scarpe invernali. Infiocchettata a puntino, facevo la mia scarpinata tra loculi, tombe gentilizie e accenni di mausolei. La sepoltura più bella l’aveva (e l’ha ancora) donna Lucrezia, signora di villa Maria. Un Angelo ad ali spiegate, scolpito nel marmo di Carrara, più in basso l’iscrizione: Ciascuno sta solo sul cuore della terra…

Rimanevo a contemplare quella tomba per un tempo indefinito. Immaginavo storie di castelli, dame e cavalieri, inconsapevole che, la nobildonna in questione, era vissuta in tempi ed atmosfere contemporanee e meno romantiche.

Al tramonto si tornava a casa. Si ammirava "il piatto dei morti", che detta così parrebbe una cosa lugubre, ma in realtà era la somma di tante delizie, come solo in Sicilia se ne preparano. Si sgranocchiava ancora qualche dolcetto e ci si rannicchiava nella malinconia che hanno le feste quando sono finite. Che privilegio crescere in una terra che, tra tanti punti oscuri, sa fare luminoso il giorno che dovrebbe essere del pianto. Sa rendere profumato un momento di malinconia al punto da farlo festoso, metaforizzando ben bene come si dovrebbe prendere la vita.

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