Vi propongo in queste righe un mio pezzo, pubblicato stamai dal settimanale Grandangolo. E' il mio modo per dire ciao a un caro amico e una bella persona.
Lo ammetto, a me Fabrizio Giuliano, quando l'ho conosciuto, non mi è
stato granchè simpatico . Così, di primo acchitto. Capita spesso che le persone
che hanno "quel qualcosa in più", lì per lì, stiano sui cosiddetti.
Sarà perchè "il genio", in chi lo possiede, fa sempre un certo
rumore. Io, all'epoca, ero bambina e con mia zia non perdevo una sola serata
del glorioso premio "Enzo Di Pisa". Fabrizio di quella manifestazione
era uno dei "mastri cerimonia". Sicuro di sè, con quella voce roca e allo stesso tempo
calda, che pareva una perenne recitazione, anche quando doveva dirti
semplicemente: "buonasera". Ogni volta che incrociavo la sua chioma
bianca - lo ricordo sempre con i capelli
candidi, anche quando aveva appena quarant'anni - pensavo: "Ma questo chi
si crede di essere?".
Poi sono cresciuta, ho iniziato la gavetta giornalistica, a condurre
serate e a organizzare qualche evento di provincia. E a un certo punto la mia
strada ha incrociato quella di quel tizio che mi stava tanto, ma tanto
antipatico.
Fu un attimo e dovetti ricredermi. Era il 2004 quando con Fabrizio
presentammo un concerto di musica lirica. Tra gli ospiti c'era anche un oggi
noto baritono, all'epoca esordiente, tipicamente vanaglorioso e intollerente a
tante cose. Eppure Fabrizio sapeva il verso per il quale prenderlo. Mi colpì
per il suo piglio tranquillo, per la sua eleganza, per quel modo di fare che
era ora accomodante, ora saldo per via di quel talento, che egli stesso non
poteva non riconoscersi. Con me era gentile, quasi paterno, mi cedeva il posto
della primadonna, senza preludi, nè rincrescimenti. Lo faceva così come farebbe il vero artista con una ragazzetta un po' egocentrica, carica di sogni e con la
presunzione di conoscere più di quanto l'anagrafe non le consentisse. Quella fu
la prima di una serie di esperienze condivise con Fabrì (io così lo chiamavo).
Per un periodo, eravamo diventati una coppia di presentatori abituè al cine-teatro Di Pisa di
Casteltermini. All'epoca quel
palcoscenico era una fucina di spettacoli, progetti e conferenze: belli e altri
tempi! Ricordo come fosse adesso l'aprile del 2008. Mi ritrovai, inesperta ma
entusiasa, nell'organizzazione del premio Franco Catalano. Con Fabrizio, con il
sindaco Sapia e con un gruppo di validi appassionati di teatro lavorammo per
mesi. Ricordo le adunate a casa sua, in via Matteotti, dentro quel bel salotto
caldo per il tepore familiare, pieno di quadri e carico di quel buongusto che è prerogativa degli
artisti. Fabrì era sempre gentile, ti infondeva quella serenità a prescindere,
che hanno le persone perbene. Dovevamo presentare insieme la serata finale, con
Jannuzzo ospite d'onore e a fargli da cornice Francesco Buzzurro, Flora Faja e
diversi altri nomi di calibro. Fabrizio mi lasciava fare, sebbene poi l'ultima
la scrivesse lui. Mi guardò con gli occhi entusiasti di un bambino e mi disse:
"quando chiameremo Jannuzzo sul palco dobbiamo dirlo insieme, all'unisono,
forte e chiaro". Mi fece provare quel pezzo dello spettacolo non ricordo
quante volte. Di belle serate come quella potrei citarne tante: il gemellaggio
con Chatelet, i concerti dell'associazione "Giuseppe Verdi",
PrimaVerAntimafia. Lavorare con lui aveva il senso del piacere, del ritrovo
amichevole, del relax inusuale. Se dovessi trovare una sola virgola fuori posto
nell'amicizia con Fabrizio, giuro che farei troppa fatica. Era una persona
educata, sensibile, pertinente. Doti rare per un attore. Dico questo al netto della piaggeria e del
tono ipocrita, sul quale spesso approdano gli elogi post-mortem. E non mi piace
neppure usare questa parola. Voglio credere che Fabrizio sia semplicemente
partito, verso altri palcoscenici, laddove si muovono scene diverse che non su
questa terra. Ed a a proposito di scene, ricordo quando al cinema lo vidì ne
"La scomparsa di Patò", era la primavera del 2012. Lui fece un'interpretazione breve, ma
splendida. Con quella sua faccia, che la natura gli aveva dato in dote e che
pareva fatta apposta per fare teatro. Uscita dalla sala 1 dell'Arlecchino di
Palermo, lo chiamai immediatamente. Lui al solito: "Maristellù, diiiimmi". Allungando come sempre la "i", come se fosse un assolo di "Peppino". Gli sciorinai non so quanti complimenti, a briglia sciolta e colta alla sprovvista dall'entusiasmo dell'amicizia. Mi partivano tutti dal
cuore e dall'orgoglio sincero, che avevo provato nel vederlo in un film di
distribuzione nazionale. E Fabrizio ascoltava le mie lodi con attenzione e
replicava con quella gratitudine che hanno gli artisti veri, quelli che hanno
sì contezza delle loro doti, ma non le danno mai per scontate. L'ultima volta
che l'ho visto è stato qualche mese fa, nel corso principale di Casteltermini. Mi parlava di un progetto al teatro Pirandello, lui quando parlava ci metteva sempre in mezzo il teatro. Fabrizio era una di
quelle persone che eri sempre felice di rivedere. Che se lo scorgevi a cinqucento
metri, allungavi il passo e lo raggiungevi, perchè valeva la pena di
intrattenersi con lui anche solo per una sventolata di minuti. Era bello
scambiare quattro chiacchierare, parlare di progetti o semplicemente di buona
tavola. Quella volta gli dissi tutta "cassariata" che ero diventata
giornalista professionista e lui: "Veeeero", allungando quella
"e" alla sua maniera e caricandola d'affetto e simpatia. A
saperlo che non lo avrei mai più
rivisto! Se solo conoscessimo in anticipo le modalità degli ultimi incontri,
faremmo di tutto per renderli i migliori, per allungarli, per dire quello che
di solito non si dice mai. Però non è così, perchè la morte, come si dice dalle
mie parti, è "facchina". La morte non è bastarda, tutt'altro, lei è
la prima figlia legittima della vita. E' semplicemente "facchina" (che a Casteltermini significa qualcosa come ineducata, irrispettosa, volgare),
recluta a destra e a sinistra senza badare ai curricula del cuore. Fabrizio,
ora che è partito, ci sembrerà ancora migliore di come già non fosse.
Desidereremo di rivedere le sue smorfie teatrali, quel suo appeal un po' britannico e quella voce inconfondibile, con quel piglio autoritario, mentre recita, per esempio, in
un dramma pirandelliano. Inutile provare a elencare tutte le cose importanti
che ha fatto nella sua carriera. Basta dire che ha dato tanto all'arte e alla
vita. Io voglio ricordarlo in un'immagine da "dietro le quinte". Al
ristorante, dopo una serata di teatro al Di Pisa, con la moglie Dora a fianco
mentre chiacchierano, in un unisono di sguardi e con le mani che si avvicinano
senza toccarsi. Mi colpì come Fabrizio guardava sua moglie, la compagna di una
vita, la madre dei suoi due figli -
Dario e Paolo - di cui lui era orgogliosissimo, senza mai inciampare
nell'insopportabile autocelebrazione di certi genitori. Mi piace ricordare
Fabrizio in quell'istante "senza valore", mentre guarda Dora, la sua
bella Dora, come se fosse un bene delicato, un petalo raro, da custodire sempre.
Ciao Fabrizio, che la terra ti sia lieve e che il cielo sia il tuo più bel
proscenio.
Ps: Che Fabrizio sia rimasto nei cuori di tanti, lo dimostra il fatto che ieri, sentendo al telefono una persona a me molto cara - che sta attraversando un brutto momento e che viaggia nei meandri della memoria, con dei saliscendi a dir poco arditi - a un certo punto questa mi abbia detto: "Hai capito chi è morto? E' morto Fabrizio, l'attore. Te la ricordi quella notte di Capodanno di vent'anni fa, quando ci ritrovammo tutti a una tavolata a giocare a mercante in fiera? Quanto era "scialoso". A me rifilò una carta per quindicimila lire. "Quanto era scialoso. Quanto ci fece divertire quella sera. Me la ricordo precisa precisa, pare ieri. Me la ricordo precisa precisa".
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