sabato 17 gennaio 2015

A Fabrizio, che era un uomo perbene


 
Vi propongo in queste righe un mio pezzo, pubblicato stamai dal settimanale Grandangolo. E' il mio modo per dire ciao a un caro amico e una bella persona.
 
Lo ammetto, a me Fabrizio Giuliano, quando l'ho conosciuto, non mi è stato granchè simpatico . Così, di primo acchitto. Capita spesso che le persone che hanno "quel qualcosa in più", lì per lì, stiano sui cosiddetti. Sarà perchè "il genio", in chi lo possiede, fa sempre un certo rumore. Io, all'epoca, ero bambina e con mia zia non perdevo una sola serata del glorioso premio "Enzo Di Pisa". Fabrizio di quella manifestazione era uno dei "mastri cerimonia". Sicuro di sè, con quella voce roca e allo stesso tempo calda, che pareva una perenne recitazione, anche quando doveva dirti semplicemente: "buonasera". Ogni volta che incrociavo la sua chioma bianca -  lo ricordo sempre con i capelli candidi, anche quando aveva appena quarant'anni - pensavo: "Ma questo chi si crede di essere?".

Poi sono cresciuta, ho iniziato la gavetta giornalistica, a condurre serate e a organizzare qualche evento di provincia. E a un certo punto la mia strada ha incrociato quella di quel tizio che mi stava tanto, ma tanto antipatico.

Fu un attimo e dovetti ricredermi. Era il 2004 quando con Fabrizio presentammo un concerto di musica lirica. Tra gli ospiti c'era anche un oggi noto baritono, all'epoca esordiente, tipicamente vanaglorioso e intollerente a tante cose. Eppure Fabrizio sapeva il verso per il quale prenderlo. Mi colpì per il suo piglio tranquillo, per la sua eleganza, per quel modo di fare che era ora accomodante, ora saldo per via di quel talento, che egli stesso non poteva non riconoscersi. Con me era gentile, quasi paterno, mi cedeva il posto della primadonna, senza preludi, nè rincrescimenti. Lo faceva così come farebbe il vero artista con una ragazzetta un po' egocentrica, carica di sogni e con la presunzione di conoscere più di quanto l'anagrafe non le consentisse. Quella fu la prima di una serie di esperienze condivise con Fabrì (io così lo chiamavo). Per un periodo, eravamo diventati una coppia di presentatori abituè al cine-teatro Di Pisa di Casteltermini. All'epoca  quel palcoscenico era una fucina di spettacoli, progetti e conferenze: belli e altri tempi! Ricordo come fosse adesso l'aprile del 2008. Mi ritrovai, inesperta ma entusiasa, nell'organizzazione del premio Franco Catalano. Con Fabrizio, con il sindaco Sapia e con un gruppo di validi appassionati di teatro lavorammo per mesi. Ricordo le adunate a casa sua, in via Matteotti, dentro quel bel salotto caldo per il tepore familiare, pieno di quadri e carico di quel buongusto che è prerogativa degli artisti. Fabrì era sempre gentile, ti infondeva quella serenità a prescindere, che hanno le persone perbene. Dovevamo presentare insieme la serata finale, con Jannuzzo ospite d'onore e a fargli da cornice Francesco Buzzurro, Flora Faja e diversi altri nomi di calibro. Fabrizio mi lasciava fare, sebbene poi l'ultima la scrivesse lui. Mi guardò con gli occhi entusiasti di un bambino e mi disse: "quando chiameremo Jannuzzo sul palco dobbiamo dirlo insieme, all'unisono, forte e chiaro". Mi fece provare quel pezzo dello spettacolo non ricordo quante volte. Di belle serate come quella potrei citarne tante: il gemellaggio con Chatelet, i concerti dell'associazione "Giuseppe Verdi", PrimaVerAntimafia. Lavorare con lui aveva il senso del piacere, del ritrovo amichevole, del relax inusuale. Se dovessi trovare una sola virgola fuori posto nell'amicizia con Fabrizio, giuro che farei troppa fatica. Era una persona educata, sensibile, pertinente. Doti rare per un attore.  Dico questo al netto della piaggeria e del tono ipocrita, sul quale spesso approdano gli elogi post-mortem. E non mi piace neppure usare questa parola. Voglio credere che Fabrizio sia semplicemente partito, verso altri palcoscenici, laddove si muovono scene diverse che non su questa terra. Ed a a proposito di scene, ricordo quando al cinema lo vidì ne "La scomparsa di Patò", era la primavera del 2012.  Lui fece un'interpretazione breve, ma splendida. Con quella sua faccia, che la natura gli aveva dato in dote e che pareva fatta apposta per fare teatro. Uscita dalla sala 1 dell'Arlecchino di Palermo, lo chiamai immediatamente. Lui al solito: "Maristellù, diiiimmi". Allungando come sempre la "i", come se fosse un assolo di "Peppino". Gli sciorinai non so quanti complimenti, a briglia sciolta e colta alla sprovvista dall'entusiasmo dell'amicizia. Mi partivano tutti dal cuore e dall'orgoglio sincero, che avevo provato nel vederlo in un film di distribuzione nazionale. E Fabrizio ascoltava le mie lodi con attenzione e replicava con quella gratitudine che hanno gli artisti veri, quelli che hanno sì contezza delle loro doti, ma non le danno mai per scontate. L'ultima volta che l'ho visto è stato qualche mese fa, nel corso principale di Casteltermini. Mi parlava di un progetto al teatro Pirandello, lui quando parlava ci metteva sempre in mezzo il teatro. Fabrizio era una di quelle persone che eri sempre felice di rivedere. Che se lo scorgevi a cinqucento metri, allungavi il passo e lo raggiungevi, perchè valeva la pena di intrattenersi con lui anche solo per una sventolata di minuti. Era bello scambiare quattro chiacchierare, parlare di progetti o semplicemente di buona tavola. Quella volta gli dissi tutta "cassariata" che ero diventata giornalista professionista e lui: "Veeeero", allungando quella "e" alla sua maniera e caricandola d'affetto e simpatia. A saperlo  che non lo avrei mai più rivisto! Se solo conoscessimo in anticipo le modalità degli ultimi incontri, faremmo di tutto per renderli i migliori, per allungarli, per dire quello che di solito non si dice mai. Però non è così, perchè la morte, come si dice dalle mie parti, è "facchina". La morte non è bastarda, tutt'altro, lei è la prima figlia legittima della vita. E' semplicemente "facchina" (che a Casteltermini significa qualcosa come ineducata, irrispettosa, volgare), recluta a destra e a sinistra senza badare ai curricula del cuore. Fabrizio, ora che è partito, ci sembrerà ancora migliore di come già non fosse. Desidereremo di rivedere le sue smorfie teatrali, quel suo appeal un po' britannico e quella voce inconfondibile, con quel piglio autoritario, mentre recita, per esempio, in un dramma pirandelliano. Inutile provare a elencare tutte le cose importanti che ha fatto nella sua carriera. Basta dire che ha dato tanto all'arte e alla vita. Io voglio ricordarlo in un'immagine da "dietro le quinte". Al ristorante, dopo una serata di teatro al Di Pisa, con la moglie Dora a fianco mentre chiacchierano, in un unisono di sguardi e con le mani che si avvicinano senza toccarsi. Mi colpì come Fabrizio guardava sua moglie, la compagna di una vita, la madre dei suoi due figli  - Dario e Paolo -  di cui  lui era orgogliosissimo, senza mai inciampare nell'insopportabile autocelebrazione di certi genitori. Mi piace ricordare Fabrizio in quell'istante "senza valore", mentre guarda Dora, la sua bella Dora, come se fosse un bene delicato, un petalo raro, da custodire sempre. Ciao Fabrizio, che la terra ti sia lieve e che il cielo sia il tuo più bel proscenio.
Ps: Che Fabrizio sia rimasto nei cuori di tanti, lo dimostra il fatto che ieri, sentendo al telefono una persona a me molto cara - che sta attraversando un brutto momento e che viaggia nei meandri della memoria, con dei saliscendi a dir poco arditi - a un certo punto questa mi abbia detto: "Hai capito chi è morto? E' morto Fabrizio, l'attore. Te la ricordi quella notte di Capodanno di vent'anni fa, quando ci ritrovammo tutti a una tavolata a giocare a mercante in fiera? Quanto era "scialoso". A me rifilò una carta per quindicimila lire. "Quanto era scialoso. Quanto ci fece divertire quella sera. Me la ricordo precisa precisa, pare ieri. Me la ricordo precisa precisa".

 
 

lunedì 5 gennaio 2015

E invece no...ridiamoci sopra un po'


Avevo quattordici anni, ricordo il giorno esatto - era d’estate - quando decisi che Pino Daniele sarebbe stato il mio cantante preferito. In radio girava a ruota libera “Io per lei” e quel video, con Pino dai capelli lunghi, tuta mimetica e chitarra “a intaglio” era un must di quegli anni ’90 sgorbi e un po’ tamarri. E io iniziai ad amare Pino, quella sua voce strana, quei suoi assoli nostalgici alla chitarra e quella musica diversa, dal resto della musica che mi girava intorno. Ho un padre con un talento musicale immenso, con la chitarra è un maestro, sebbene non abbia mai preso una lezione. Da piccola mi ha instradata verso l’amore per le sette note, contagiandomi passioni e suoni, che mi porto addosso ancora. Pino, però, non gli è mai piaciuto. Mi ha fatto una resistenza feroce quando ho iniziato a far girare i suoi dischi per casa. All’epoca, a Casteltermini, il paese dove sono cresciuta, c’era un negozio di “musica”, era di un certo Alessandro. Ricordo che prenotai non so quanti cd di Pino, da "Bella ‘mbriana a “Nero a metà”. Accumulai paghette e spiccioli con frenesia, pronta a devolvere tutto per realizzare il sogno di una discografia semi-completa di un artista di cui, d’improvviso e senza un perché, mi  ero letteralmente innamorata. Intanto a casa mettevo a ripetizione “My name your name  messi vicini per caso, nel blu di quel biglietto che non ti ho mai dato”. Pino mi aveva fatto scoprire la musica vera, quella grande, che ti accelera il cuore e ti spara dentro la testa ispirazione e ubriacature di quelle belle, che non stordiscono ma danno gioia. In quella passione mi era complice una mia cugina, una certa Valeria: ci scambiavamo testi, cd, musicassette e sognavamo di ascoltarlo dal vivo quel guaglione napoletano, dall’età indefinibile e con in testa una montagna di capelli brizzolati. Non ricordo come, ma riuscii a recuperare due cd incantevoli: “Un uomo in blues” e una delle sue prime raccolte . Mi infilai nel mondo delle Napul’è, Quanne Chiove e l’Allaria. Piangevo ad ascoltare quelle poesie napoletane, musicate con l’ispirazione di chi è grande e tale rimarrà per sempre. Fu a quel punto che convinsi mio padre ad ascoltare un brano, di cui non ricordo il titolo. Era un motivetto “puttaniero”, che cominciava con quattro note di chitarra: “Ma cos’è questa tristezza ehi ma che d’è sta musciaria, sarà o tiempo o l’aria strana o è sulu a capa mia”. Mio padre si innamorò di quella canzone senza successo e ancora oggi, quando ci dilettiamo a canticchiare insieme, è uno dei cult del nostro repertorio. Dovetti aspettare che passasse qualche anno per vedere da vicino Pino. Medina era una disco “contaminato” come diceva lui. Aveva suoni africani, quelli che cominciavano a piacere al bluesman di Napoli. Il teatro Metropolitan di Palermo era un tripudio, io ero riuscita a mettere insieme i soldi per meritarmi l’ultima fila: ottantamila lire per un sogno! Ai miei genitori avevo inventato una balla monumentale,  con la complicità di Valentina, un’amica di quelle che resistono. Con me c’era il mio  fidanzatino di allora, grande conoscitore di buona musica, al quale però non riuscii a contagiare l’amore per Pino. Fu una delle mie emozioni più grandi. Pino spuntò al centro del palco, tutto vestito di nero, imborghesito nei modi, nel look, financo nella remise en forme. Con lui una band di sole donne: bellissime, scollacciate e assatanate di musica. Prima di andare via, staccai da una parete del teatro un enorme manifesto con la foto di Pino. L’ho appeso sul lato della mia storica libreria, proprio di fronte al mio letto. E’ lì ormai da quasi vent’anni. Tutte le volte che torno a casa dai miei, guardo sempre quel poster con la soddisfazione di chi ha centrato un piccolo sogno. Pino l’ho rivisto dal vivo tante e tante altre volte. Ne ricordo un paio con un battito di cuore. Nel 2002 mise su un progetto con De Gregori, Ron e la Mannoia. Avrebbero fatto tappa al velodromo di Palermo. Con un mio amico di infanzia, tale Peppe, organizzammo una spedizione. Da Casteltermini saremmo partiti in treno e una volta arrivati a Palermo, in qualche maniera, avremmo raggiunto il velodromo. Fu un’impresa, era pieno agosto, i mezzi pubblici erano claudicanti e la meta era fuori città. Ciononostante riuscimmo nell’impresa e ci guadagnammo un posto proprio sotto il palco. E Pino faceva magiche le musiche sue e quelle degli altri con quei suoi arrangiamenti, che li riconosceresti tra mille. E quando intonò l’inizio di “Oh che sarà” sciolsi gli occhi in un pianto, che aveva dentro tutta la mia gioventù, i vent’anni, i sogni le paure e tutte le cose che ancora non conoscevo. Alla fine del concerto, carichi di felicità, raggiungemmo Palermo in autostop, ciondolammo per la città una notte intera, esausti per la giornata infinita, mentre la città dormiva e non ci concedeva il premio di un solo bar aperto. Stipulammo un patto: il sonno uno alla volta. Su una panchina ci appisolammo mezzora per uno. A turno si  faceva la guardia, non fosse mai arrivato un ladro a rubarci i due spiccioli che ci restavano in tasca. Poi finalmente arrivò l’ora del primo treno e fummo felici. In fondo quella piccola impresa l’avevamo messa su per Pino. Nel 2004 realizzai il sogno. Facevo gavetta al Giornale di Sicilia e davo l’anima per un mestiere, che volevo diventasse  l’alfa e l’omega della mia vita. Riuscii ad avere un lasciapassare per una trasmissione di Fiorello a Roma, al delle Vittorie. Quel sabato ospite d’onore sarebbe stato Pino. Misi in valigia il primo cd che mi capito tra le mani: “Dimmi cosa succede sulla terra”. Dietro le quinte incrociai Pino, mi avvicinai timida e gli allungai il disco. Lui lo autografò senza attenzione e io pensai di avere tra le mani un tesoro. Sarebbe bello dire che conservo quella copertina come una reliquia. Non è così. Smarrii quel disco a Roma, nella confusione delle valigie in albergo. Non lo ritrovai più e quando ci penso mi sale una rabbia senza confine. Ho un altro ricordo piccino, che ogni volta mi dà un sorriso. Era il 2004, uno dei dicembre più sorridenti della mia vita. Mi trovavo a Salerno e mi imbattei in una banda di ottimi amici musicisti: Alessandro Russo, un mago del pianoforte, Carmine D’Aniello, voce esaltante, Gianni Sorvillo, percussionista e degno allievo di Tony Esposito. Con l’egocentrismo dei vent’anni, chiesi loro di ospitarmi in un concertino, volevo cantare quella canzone che piaceva e piace tanto a mio papà: “Ma cos’è questa tristezza ehi ma che d’è sta musciaria”. E la cantai in una piazzetta di Salerno, con un freddo cane che mi penetrava la gola, il pubblico che voleva cantare con me, ma non conosceva una sola parola di quel brano, forse l’unico, un po’ sgarrupato, sebbene scritto dal maestro. Caro Pino ti ricordo con questa canzone e con una lacrima. Sei e rimarrai il mio cantante preferito. Alla notizia della tua morte, io Alessandro, l’uomo della mia vita, ieri non ce la facevamo a prendere sonno. Lo abbiamo saputo dai social e abbiamo sperato si trattasse di una bufala. Abbiamo principiato che, da quando stiamo insieme, non è passato giorno senza avere ascoltato un tuo brano. La nostra preferita è “Sicily”. Ma oggi ti ricordo con quella sgarrupata, quella che canto sempre con mio papà: “E invece no, ridiamoci sopra un po’ na scarpa sì e una no, come in un film di Charlot…dibudi du du, da di bu di bu duuu”…

giovedì 1 gennaio 2015

Lin ha visto la neve


Lin non ha mai visto la neve. Cominciava così una fiaba, che Lucia aveva imparato da piccola. Gliela aveva raccontata sua nonna e lei l'aveva memorizzata al punto che un giorno l'aveva appuntata su un quaderno così da non dimenticarne neppure un dettaglio. Che tanto un giorno chi gliela narrava non ci sarebbe stato più e tanto valeva scrivere ogni cosa, che le parole scritte restano e arrivano molto più in profondità di quelle parlate. Lucia era come Lin. Pure lei non aveva mai visto la neve. Veniva da una di quelle isolette siciliane dove d'estate pare di vivere dentro un incanto: gli scenari da cartolina sono una consuetundine, il cielo è di un azzurro praticamente perfetto e una luce senza ostacoli impera perennemente su cose e persone. D'inverno le cose cambiano: il tempo si ferma e la gente si immobilizza dentro le mura delle proprie esistenze. Nelle isole, del resto, ogni persona è un mondo che va avanti da sè. Lucia sognava come Lin di vedere la neve, ma uscire dal perimetro del suo mondo la spaventava, tutt'al più le sarebbe bastata la solita gita nell'isola grande, quella dove la terra rimane ferma nonostante le maree. A Natale Lucia sarebbe andata da Lina, la sua migliore amica. Era da poco crollato a pezzi il suo matrimonio: un grande amore, che non aveva sopportato delle minuscole mareggiate, che sommate avevano scaturito, negli anni, un devastante maremoto. Lina viveva in un paese arroccato su certi monti lievi, dove però il Natale ha il gusto del tepore, dell'aria gelida, dell'odore dei comignoli. Lina e Lucia si conoscevano da sempre, da quando Lina, piccola borghese con un cuore senza limiti, aveva fatto quella vacanza isolana con i suoi genitori. I loro occhi si erano riconosciuti ed era partito quel guizzo, che è il sintomo dei sentimenti che dureranno. Lucia aspettava di fare quel Natale in un pasesino senza pretese non fosse che per svuotare il cuore dai tanti drammi, che lo avevano circumnavigato per anni. Era arrivata a casa di Lina con quella sua timidezza, che le inondava le guance di rossore, tutte le volte che un estraneo le rivolgeva la parola. L'abbraccio con Lina era stato modesto, ma poi i due cuori erano partiti a battere all'unisono ed era esploso il vulcano delle confidenze, delle lacrime consolatorie e degli abbracci carichi di profondità. Il Natale era passato dentro quella semplicità di gesti, che rende felici le persone che si amano. Lucia non ci aveva pensato due volte ad accettare l'invito della sua amica a rimanere fino a Capodanno. Che tanto nell'isoletta ad aspettarla non c'era praticamente nessuno e rimanere sulla terra ferma, l'avrebbe aiutata ad appuntare e a mettere in archivio certi cattivi pensieri. Sarebbero rimaste a casa, insieme alla piccola famiglia di Lina e quattro splendidi cani, che davano colore a tutto il resto. Il giorno del 31 Lucia si era svegliata coperta da una persante coltre di freddo. Non capiva cose stesse capitando in quel pezzo di mondo, che tutto sommato non le apparteneva per niente. Si era raggomitolata dentro la sua vestaglia di pile e aveva dato un'occhiata distratta fuori dalla finestra. C'era la neve e Lucia non riusciva a crederci. Pensava a Lin, la protagonista della sua fiaba preferita. Pensava con intensità a sua nonna, al tono flebile della sua voce, mentre le raccontava quella storia senza morale, ma piena di magia. Si fermò ad osservare i fiocchi per un tempo che le sembrò prima breve e poi senza fine. Si strinse dentro la sua vestaglia e sorrise alle sue lacrime, perchè negli ultimi anni ne aveva versate così tante che adesso non aveva più voglia di ingoiarne. Quando Lina bussò alla porta, chiamandola per la colazione, lei le chiese di lasciarla da sola per un po'. Il bello dei sentimenti importanti è la licenza di poter dire di no, senza che dall'altra parte si risponda con barlumi di rancori o con insopportabili cove di offesa. Lucia voleva rimanere in compagnia di quei fiocchi, che scendevano lenti, presuntuosi, ingordi di sguardi e allo stesso tempo capaci di regalare emozioni senza giustificante. Pensò che dentro quei fiocchi ci fossero le occasioni perse, quel grande amore naufragato senza un perchè o forse perchè il perchè se lo erano preso l'orgoglio, le parole non dette, la poca pazienza, la voglia di avere ragione (che come dice la canzone, "la ragione non sempre serve"). Pensò ai suoi affetti più grandi, pochi, ma consistenti. Alla magia del suo mestiere, cucire abiti per le spose dentro un'isola dove si celebravano più matrimoni che funerali: che fortuna! In ultimo si concesse il pensiero più intimo e a quello sì che regalò una lacrima. Pensò a suo figlio, lo immaginò nel suo visino tondo, probabilmente non bellissimo, ma perfetto per il suo amore di madre. Immaginò i  suoi occhi verdastri, i capelli scuri e fitti e un minuscolo broncio stampato sulle labbra. Sorrise e pianse allo stesso tempo. Provò a vederlo dentro un fiocco di neve, ma non ci riuscì. Pensò che quel bimbo fosse al riparo, in un mondo migliore dalle piccinerie di noi mortali poveri, incoscienti e talvolta immeritevoli di  avere in dote grandi sentimenti. Aprì la finestra e raccolse un fiocco, se lo poggiò sul viso e tentò di carezzare quel bimbo che non aveva mai conosciuto nè il bello nè il brutto del mondo. Pianse ancora e poi ricontemplò la neve. Pensò a Lin a quella fiaba piccina e senza morale che si concludeva nella  solita maniera banale, ma incantevole: "Lin aveva visto la neve ed era molto felice"...E Lucia in quel Capodanno senza pretese e senza gioie si concesse per un attimo il lusso della felicità. Contemplò la neve e si sentì felice. Solo felice, per lei, per la neve: lenta, presuntuosa, bella e carica di capricci.